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Coronavirus, 41enne guarito dal coma: "Ho visto la morte da vicino"

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"Anche a 41 anni puoi vedere in faccia la morte": lo ha raccontato Michele, giovane positivo al Coronavirus, guarito dopo due settimane di coma.

Infermieri, medici, virologi e altri esperti lo hanno detto chiaramente: il Coronavirus non guarda in faccia nessuno, colpisce indistintamente. I più anziani o coloro che soffrono di patologie pregresse sono da sempre i soggetti deboli e, conseguentemente, il contagio risulta più facile. Va precisato, come fatto dal professor Roberto Remuzzi, che è vero che la maggior parte delle vittime provocate dal Covid-19 “sono anziani o individui con altre patologie”, ma è anche vero che senza questa malattia “sarebbero ancora in vita”. Nonostante l’eta media sia piuttosto elevata, il Coronavirus colpisce anche i più giovani: lo sa bene Michele Vitiello, 41enne guarito dopo due settimane di coma. Sono “angeli” i medici e gli infermieri che lo hanno curato, ha commentato.

Coronavirus, il 41enne guarito dal coma

“Anche a quarant’anni puoi morire senza sapere perché”. A dirlo è Michele Vitiello guarito dopo tre settimane in ospedale, di cui due intubato in coma farmacologico in terapia intensiva. Ha perso 10 chili, è fortemente debilitato, tanto da non riuscire a salire le scale. C’è ancora un dubbio lo tormenta: come ha fatto a essere stato contagiato?

Come riporta Il Messaggero, il quarantunenne ha raccontato: “Sono atletico, sportivo, ho sempre goduto di ottima salute, mai fatto nemmeno un’influenza, l’unico dottore che avevo visto fino a quel momento era il dentista. E ho 41 anni, la metà del paziente tipo di coronavirus. Eppure mi sono ammalato anch’io e probabilmente non sarei finito attaccato all’ossigeno se, dopo cinque giorni di febbre a 39 e mezzo, qualcuno mi avesse detto che cosa avevo”.

Sulla sua vicenda ha aggiunto: “Il 23 febbraio mi è venuta la febbre, calava con la tachipirina ma risaliva continuamente. Al quinto giorno ero come al primo. In televisione continuavano a trasmettere servizi sul Coronavirus, i casi aumentavano e mi sono detto: ho modo di verificare se ho una normale influenza o qualcosa di più?”.

Michele vive a Brescia, uno dei comuni più colpiti dal virus che sta tormentando il mondo intero. I suoi contatti, tuttavia, sono molto più ampi, estendendosi molto più in là del suo comune di residenza. Infatti, ha spiegato: “Sono consulente informatico forense, lavoro ai casi criminali, collaboro con 28 procure e 20 tribunali in tutti Italia. Viaggio molto, faccio 70.000 chilometri all’anno solo con l’auto, vado dove c’è il crimine. Questo probabilmente mi ha messo in contatto con una persona contagiata, che non ho idea di chi sia”. Le sue condizioni sono peggiorate perché sono passati diversi giorni prima che Michele fosse soccorso. “Il problema è che chiamavo i numeri della Regione e mi facevano sempre le stesse tre domande. È stato in una zona rossa? No. Ha avuto contatti con persone provenienti dalla Cina? No. Fatica a respirare? Non in modo particolare. E allora chiami il suo medico di famiglia, questo è il protocollo, era la risposta. Sempre in modo brusco”, ha spiegato. Quindi, tra la rabbia e il sollievo, quello dato dal netto miglioramento delle ultime ore, ha aggiunto: “A Brescia non c’erano stati altri casi, io ero il primo o il secondo, se mi avessero preso per tempo non sarei finito intubato.

Il suo grazie va ai medici della Fondazione Poliambulanza di Brescia. “Non so come ringraziarli. Grandi professionisti di straordinaria umanità, ha commentato. E ancora: “Dopo giorni di tentativi falliti, alla fine il 28 febbraio arriva un’ambulanza. Io mi ero preparato uno zainetto con oggetti di prima necessità, pensavo di fermarmi in ospedale per una notte e mai avrei pensato di restarci tre settimane. Mi metto in tasca un po’ di soldi, la carta d’identità, il telefono, salgo sul mezzo e subito iniziano a farmi alcuni test. Nel giro di pochi minuti l’ambulanza parte a sirene spiegate, sembrava che avessero raccolto un moribondo.

La prognosi

I medici, dopo averlo visitato, hanno stilato il referto. “Avevo una polmonite bilaterale in uno stato avanzatissimo. Un medico mi informa: l’unica cosa che possiamo fare è intubarti, se vuoi saluta le persone care. Non riuscivo a credere a quelle parole. Ho chiesto: sono in pericolo di vita? Purtroppo sì, mi ha risposto il dottore. Telefono alla mia ex moglie per salutare i bambini, chiamo mia madre per dirle che la situazione è ben più grave di come appariva. Da quel momento sono stato in coma farmacologico per quindici giorni, dopo otto mi hanno praticato un piccolo foro alla gola per inserire un tubicino che arriva ai polmoni, perché per più di otto giorni non si può restare intubati”, ha fatto sapere commosso. Poi la gioia più grande. “Mi sono risvegliato il 13 marzo con degli angeli intorno, medici e infermieri, che hanno fatto di tutto per salvarmi e per farmi stare meglio. “Stai benissimo, stai guarendo”, mi confortavano”.

Ora sta meglio, “ma riprendersi è lungo e faticoso, ha precisato. E ancora: “Sono a casa da giovedì 19 marzo, ho dolori ovunque, perché essendo stato sdraiato per tanto tempo ho perso forza nelle gambe. Non ho mangiato per molti giorni e ho perso dieci chili, mi sento spossato. Cucino e poi mi siedo. Lavo i piatti e mi devo sedere di nuovo”. Quindi ha aggiunto con orgoglio: “Non mi importa del fatto che non riesca a stare in piedi o fare le scale: quando torni a vivere ti senti miracolato. Quando mi hanno detto che ero in pericolo di vita, da persona sempre in salute, non ero pronto. Anche perché solo qualche giorno prima chi doveva valutare le mie condizioni di salute mi diceva che non ero infetto e, invece, ero già positivo. Ora aspetto solo il doppio tampone che accerti la negatività per fare i compiti e giocare a pallone con i miei figli di sei e otto anni. Li posso vedere solo in videochiamata”.