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No, Willy Monteiro non era nel posto sbagliato al momento sbagliato

Omicidio Colleferro, Willy non era nel posto sbagliato al momento sbagliato

Quando lo hanno massacrato di botte a Colleferro, Willy Monteiro era esattamente dove voleva essere: a passare una serata con persone a lui gradite.

La sociologia del crimine è una brutta bestia. È brutta perché ti porta ad schiacciare gesti, azioni e vite dei protagonisti di un’azione delittuosa nelle formine strette delle categorie e dei contesti preconfezionati. Contesti per cui l’omicida, o gli omicidi, devono avere una caratura lombrosiana, un battage estetico che giustifichi la loro brutalità. E per cui di pari passo la vittima debba andare in binario di un certo story board narrativo. Tutto questo porta le tragedie a levitare in una sorta di limbo analitico che perde di vista la polpa del loro manifestarsi: la concitazione di un preliminare che sembra solo una baruffa di cui parlare il giorno dopo al bar, l’esplosione della violenza, le urla di quei minuti maledetti, i colpi contrappuntati dai grugniti e dalle bestemmie, il fiato corto di vittima e picchiatori, i passanti atterriti fra pacificazione rischiosa e spettacolo orrido, il respiro che perde ritmo e sfuma orribilmente nel silenzio della morte, la sirena di un’ambulanza, gli assassini compiaciuti davanti ad uno shot, il buio che torna a prender casa in Ciociaria. È come se la mente cogliesse l’occasione narrativa del giudizio etico per non sporcarsi le mani nella semplice ed inorridita contemplazione della bruttura.

Una trama sotto la trama per cui Willy Monteiro era ‘nel posto sbagliato al momento sbagliato’. E invece no: quando lo hanno massacrato di botte in gruppo Willy era esattamente dove voleva essere, cioè a passare una serata con persone a lui gradite e a cercare di salvare la serata nel vedere che la medesima imbruttiva per un motivo pare cretino. Lo avremmo fatto tutti, anche i più pavidi e ritrosi di noi. E la sconcia barbarie della reazione che la sua scelta ha scatenato, portandolo al buio della morte, non è la fisiologica epifania di un meccanismo di causa effetto, quella è roba da proscenio. Di una cosa cioè dove il Destino Greve ti ha spinto nell’unico anfratto del tuo vissuto che dovevi rifuggire come la peste.

È qualcosa di meno, e di peggio: è la possibile evoluzione di una faccenda quando di mezzo ci sono bruti da un lato e persone normali dall’altro. E in un mondo dove le bestie sono maggioranza può succedere. È un mondo dove a rimpolpare le file di quella maggioranza mannara ci abbiamo pensato un po’ tutti, ciascuno dal suo cantuccio, ciascuno con un minuscolo tassello di pedagogia al contrario.

Attenzione: non brutalità e normalità, quelle sono categorie che generalizzano e danno abbrivio solo alle psico menate mainsream del dopo tragedia o ai meme che occhieggiano alle fattezze truzze degli assassini col rovello del karate. No, le cose vanno ficcate negli abiti delle persone che quelle cose le fanno accadere. E ci vanno ficcate con la misura perfetta che vede l’individuo combaciare con ciò che fa. Solo così la banalità del male che tanto fece incazzare i detrattori di Hannah Arendt viene fuori e diventa chiave di lettura scomoda ma tiranna assoluta. Willy non ha messo in moto nessun meccanismo ineluttabile, non ha spostato l’asse del raziocinio verso il dirupo della rottura della quiete del sistema. Neanche ha avuto tempo per riflettere sullo spessore etico di ciò che pare abbia fatto, lo ha fatto e basta perché gli eventi sono onde e l’uomo è barchetta piccola, guscio di noce che però conserva dritta, nella più parte dei casi, la barra istintiva della correttezza e della solidarietà fra amici. Ergo, se qualcuno vuole legnarne uno dei tuoi, tu ti metti in mezzo e provi a metter pace o a fare squadra.

No, il giovane ciociaro non si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Facciamo tutti volentieri la tara alla genuinità degli intenti di chi ha voluto chiosare una tragedia così grande con questa frase, ma non siamo d’accordo. Non potremmo esserlo mai, perché significherebbe che il mondo in cui viviamo è fatto di posti e circostanze in cui vivere è lecito e di angoli bui in cui decidere di agire secondo coscienza è rischioso e, per certi versi, sconsigliabile. E questo messaggio non può passare, non in un sistema complesso occidentale di terza generazione come il nostro. Un posto dove bruti, cafoni sguaiati e picchiatori dovrebbero essere esempi al contrario e invece troppe volte diventano stereotipi con sessappiglio social.

Willy ha fatto quello che tutti dovremmo fare: ha fronteggiato un gruppo di bestie per evitare che la bestialità tracimasse. E il fatto che sia successo l’esatto contrario, con lui cadavere in una morgue romana e con una famiglia schiantata, non toglie un’oncia di bellezza alla rotonda perfezione del suo gesto. Ricordare Willy Monteiro significa esattamente questo: non scordarsi mai che è morto non per qualcosa, ma di qualcosa. È morto di normalità in un mondo che la normalità non la conosce più.