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Decreto lavoro: se il passo avanti diventa un salto nel buio

Decreto aiuti ter Senato

La politica è un’opinione, ma la matematica e l’analisi economica sono fatte di numeri: è impossibile litigare.

“Un passo nella giusta direzione”, come sostiene la maggioranza di centro destra, o un “passo indietro” come denunciano i sindacati e l’opposizione? Come era prevedibile, il varo del decreto lavoro del Governo Meloni continua a infuocare il clima politico, ma anche a confondere le idee degli italiani: ogni valutazione sui principali interventi approvati dall’esecutivo – riforma del reddito di cittadinanza; taglio del cuneo fiscale; estensione dei contratti a tempo determinato – finisce inevitabilmente nel vortice dello scontro ideologico di cui è prigioniero il paese in questa fase politica. A chi bisogna credere, dunque?

La politica è un’opinione, ma la matematica e l’analisi economica sono fatte di numeri: è impossibile litigare. Nel caso del decreto lavoro, tuttavia, sembra essere proprio la mancanza di un chiaro confine tra obiettivi politici e logiche economiche a creare serie incertezze sullo scopo, l’utilità e la sostenibilità dei diversi interventi di riforma, a cominciare dal taglio del cuneo fiscale.

La riduzione di 4 punti dei contributi per chi guadagna fino a 35mila euro, infatti, costa 5 miliardi di euro e dura sei mesi (scadrà a dicembre): “in tempo di guerra non si butta niente”, dice un vecchio proverbio, ma al netto dell’inflazione (e delle tasse sui redditi), gli sgravi garantiranno solo poche decine di euro in più ai lavoratori interessati. Per muoversi davvero nella “giusta direzione”, quindi, l’operazione sul cuneo fiscale dovrebbe essere estesa dal governo almeno per altri sei mesi, cioè fino al giugno del 2024: il costo per lo Stato salirebbe a 10 miliardi (5+5), ma gli effetti in busta paga sarebbero certamente più visibili, utili e concreti. Lo sa bene anche il governo, che pur rivendicando il merito della “più grande operazione sul cuneo fiscale” mai fatta in Italia, ha confermato la volontà della maggioranza di prorogare gli sgravi fino alla metà dell’anno prossimo. Se non addirittura oltre.

Impegno lodevole, ma anche azzardato.

In realtà (come hanno ben calcolato gli economisti Tito Boeri e Roberto Perotti), la cifra da reperire per finanziare 12 mesi di sgravi contributivi è molto più impegnativa di quanto l’esecutivo lasci intendere. Per arrivare ai 5 miliardi di euro necessari per tagliare quattro punti per sei mesi, infatti, il governo ha potuto contare sull’intervento da 3,4 miliardi varato in precedenza da Mario Draghi, ma la cui scadenza è fissata alla fine di dicembre: per raggiungere l’obiettivo di un anno di sgravi, quindi, Palazzo Chigi deve reperire per intero oltre 10 miliardi di euro. Vista la situazione dei conti pubblici, dove (e come) il governo intenda reperirli, è un rebus avvolto nel mistero.

Ma più del taglio degli oneri contributivi, è la riforma del Reddito di cittadinanza ad aver scatenato non solo la bagarre tra maggioranza e opposizione, ma soprattutto incertezza e confusione sui costi e i benefici dell’azione del governo: la complessità burocratica del nuovo regime sugli aiuti e soprattutto la farraginosità delle procedure per accedere al sussidio pubblico, infatti, sembrano seguire logiche molto distanti dallo spirito originario della legge. In termini generali, i cardini della riforma sono essenzialmente due: l’Assegno di Inclusione, riservato a chi ha più di sessant’anni e alle famiglie con minori e disabili, e lo Strumento di Attivazione, destinato ai cosiddetti “occupabili”, cioè tutti coloro che non vivono con minori, disabili o anziani e che hanno un Isee sotto i seimila euro. In realtà, il primo programma replica nella sostanza il vecchio Reddito di Cittadinanza, mentre il secondo è di fatto un’indennita’ di frequenza ai corsi di formazione che dura 12 mesi non rinnovabili. Il problema è che Italia non esiste una rete di centri formativi in grado di sostenere la platea di mezzo milione di persone che dal gennaio 2024 dovrà iscriversi ai corsi per ottenere il sussidio: realizzarli e avviarli in appena sette mesi, sembra per ora una missione impossibile.

Per il resto, non c’è molto da dire: sia l’estensione dei contratti a termine da due a tre anni, sia quella dei voucher nel turismo, sono misure contestate dai sindacati, ma che vanno certamente incontro alle esigenze di flessibilità delle imprese. Su questo terreno più che in altri, lo scontro sulle scelte del governo è chiaramente ideologico: il giudizio finale lo darà il mercato del lavoro.