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Generale Solemaini ucciso in un raid USA: la sua morte è un mirato assassinio politico

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Eliminare Soleimani vuol dire molte cose, in un delicato scacchiere su cui si muovono non solo Usa e Iran ma anche Isis, Israele e Arabia Saudita.

L’assassinio politico del generale iraniano Soleimani – perché di questo si tratta: non è un attentato né un raid militare – sembra essere la boa di una lunga corsa alle ostilità iniziata con l’uscita dall’accordo nucleare, nel maggio del 2018. È stato un omicidio mirato: a che cosa mirava? Eliminare Soleimani vuol dire molte cose. Vuol dire turbare la scena interna iraniana: Soleimani era stato un eroe della guerra con l’Iraq, e poi aveva acquisito un’aura di invincibilità dal Libano alla Siria, dall’Iraq a Gaza. Era qualcosa di più della politica estera iraniana sul piano militare, come rivelano certe foto in cui appare devotamente accanto a Khamenei, e come raccontano altre sue immagini in tuta mimetica, la barba bianca ben curata di una persona ormai anziana, ma in mezzo ai suoi soldati, sul terreno: era la versione di un ayatollah, severo e modesto, sul campo di battaglia. E a differenza di altri, era un nome che univa le tante anime del regime iraniano.

Il vero significato dell’uccisione di Soleimani

Toglierlo dalla scena vuol dire decretare finita la lotta all’Isis, che le milizie sciite avevano scacciato da Mosul, e finito l’armistizio separato con Assad, in nome della lotta alle bandiere nere del Califfato. Vuol dire alzare il gioco, nell’Iraq delle proteste contro un’intera classe politica e della sua sudditanza verso Teheran. Vuole insomma dire troppe cose per essere solo la risposta all’assalto dell’ambasciata americana a Baghdad (non avevano ricevuto risposte simili gli attacchi ben più sanguinosi di Al Qaeda contro le ambasciate Usa in Africa, alla fine del secolo scorso, né l’attacco all’ambasciata di Bengasi, e l’ormai lontano attacco all’ambasciata di Teheran con la presa d’ostaggi aveva ricevuto per risposta solo una disastrosa operazione di elicotteri).

E che voglia dire qualcosa di troppo raffinato o al contrario troppo grossolano per essere un’azione logica lo dimostrano i brindisi silenziosi di banchettanti diversissimi attorno al feretro di Soleimani: l’Isis, Israele, l’Arabia Saudita.

Il giro di boa

E adesso, girata la boa? Dubito che si arrivi davvero a un conflitto, e anche che vi sia una risposta immediata e proporzionata: l’Iran dovrebbe attentare al Pentagono, per fare pari. Semplicemente è ostilità aperta, con l’America di Trump che alza la voce – in qualche modo zittisce anche i conflitti interni: puoi mettere i bastoni dell’impeachment tra le ruote di un carro da guerra? – rimette al suo posto la Russia fresca di esercitazioni con cinesi e iraniani, il petrolio che rincara (occhio a quello che potrebbe succedere nello Stretto di Hormuz…).

L’unica consolazione è che le istituzioni di cui facciamo parte sono più estranee della Svizzera al precipitare della crisi: l’Europa non conta niente, e neppure le Nazioni Unite, perché i 5000 turchi che sbarcano a Tripoli per soccorrere Serraj, giocano una partita tutta loro, non sono lì per conto terzi.