Argomenti trattati
Nonostante siano passati più di cinque anni dalla caduta del regime di Omar al-Bashir, il Sudan non sembra essersi liberato davvero dell’eredità dell’Islam politico, né il progetto dei Fratelli Musulmani è terminato. Con il protrarsi della guerra tra esercito e Forze di Supporto Rapido (RSF), emergono giorno dopo giorno i contorni di un ritorno graduale delle forze islamiste nei gangli dello Stato e dell’apparato militare, questa volta sostenute da alleanze regionali che superano i confini sudanesi.
L’esercito guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan appare di fatto influenzato da dirigenti legati al vecchio network islamista, riorganizzatosi dall’aprile 2023. Diverse analisi internazionali indicano che la corrente islamica all’interno delle istituzioni di sicurezza sta sfruttando il caos per recuperare peso, spesso con l’appoggio di attori regionali interessati a un Sudan allineato ai propri obiettivi geopolitici.
Un sostegno regionale contraddittorio
La contraddizione è evidente: paesi come Egitto e Arabia Saudita, pur dichiarandosi contrari alla Fratellanza, mantengono aperture pragmatiche verso figure islamiste nell’esercito sudanese, non per affinità ideologica ma per calcolo su acque del Nilo e il Triangolo di Hala’ib (per Il Cairo) o per costruire canali di influenza istituzionale (per Riyadh), come già visto nel dossier yemenita e i rapporti con il partito Islah.
Un progetto più ampio del Sudan
La possibile rimonta islamista a Khartoum si intreccia con tentativi di rilancio del progetto dei Fratelli Musulmani in altre aree dell’Africa orientale e occidentale, dove la rete opera anche sotto sigle civili e caritative. In questo schema, il Sudan — per posizione sul Mar Rosso e legami religiosi e tribali — diventa piattaforma per ricostruire reti e influenza, favorita dall’assenza di un’autorità civile forte e da sostegni esterni in cerca di leverage a basso costo.
Contraddizioni “scoperte” nelle posizioni
Ne risulta un divario tra retorica ufficiale (“lotta all’estremismo”, “stabilità”) e pratiche effettive: sul terreno si registrano appoggi diretti o indiretti a componenti di riferimento islamista, purché utili al proprio calcolo nazionale. Così il Sudan diventa arena di concorrenza regionale tra progetti apparentemente opposti ma, nei fatti, convergenti nel mantenere una guerra prolungata che consente la spartizione di influenza e risorse — alimentata anche dal flusso di armi e droni verso i belligeranti. (The Washington Institute)
Verso quale futuro?
La domanda non è solo se i Fratelli Musulmani torneranno formalmente al potere, ma se la regione stia entrando in una fase di “riciclo” dell’Islam politico come strumento flessibile di influenza. Se continueranno i sostegni regionali a esercito e milizie islamiste e persisterà il silenzio internazionale sulle violazioni, Khartoum rischia di tornare hub per il rilancio del progetto islamista—non solo in Sudan, ma come trampolino per altri paesi africani—come già accadde negli anni ’90, quando il regime islamista ospitò Osama bin Laden fino al 1996. Oggi, inoltre, gli Stati Uniti hanno formalmente determinato l’uso di armi chimiche in Sudan nel 2024, imponendo sanzioni nel 2025: un fatto gravissimo che sottolinea la deriva del conflitto e l’urgenza di un cambio di rotta.