Sigfrido Ranucci, volto storico del giornalismo d’inchiesta italiano, racconta tra ironia e fermezza la sua esperienza tra politica, procedimenti legali e carriera televisiva. Tra memorie d’infanzia alla Garbatella e inchieste scomode, emerge la sua visione chiara: libertà editoriale prima di ogni schieramento o interesse di partito. In un’intervista rilasciata al Foglio, Ranucci si confessa senza filtri, svelando retroscena della sua vita privata, del rapporto con i partiti e delle sfide affrontate nel corso della sua carriera giornalistica in Rai.
Sigfrido Ranucci: un’identità complessa tra infanzia, politica e inchieste
Sigfrido Ranucci, intervistato dal Foglio, descrive se stesso con un’ironia amara: “Non sono un martire“. Ripercorre le sue origini politiche quasi per caso, ricordando l’unica tessera di partito avuta nella vita, “quella della Dc. Corrente sbardelliana“, ottenuta da ragazzo “senza neanche saperlo“. Cresciuto alla Garbatella, figlio di un brigadiere della Guardia di Finanza, racconta come le sue idee oscillino tra una visione “legalitaria” e un’identità che continua a definire cattocomunista. Il suo nome, omaggio al nonno e alla passione familiare per Wagner, gli valse nel quartiere il soprannome di Lello: difficile, nota lui stesso, “immaginare l’Anello dei Nibelunghi alla Garbatella“.
Sulla politica è categorico: “Non entrerò mai“. Non si riconosce in alcuna forza e respinge ogni tentativo di arruolamento, ricordando che il Pd lo sostiene formalmente “ma non è che mi amino particolarmente“, mentre una parte del M5s ha sempre creduto che Report fosse “roba loro“. Ripercorre anche la lunga scia di procedimenti affrontati negli anni: “Ho due o tre processi aperti […] ma non ho mai perso una causa“.
Tra le inchieste più delicate cita quella della bomba e il ritrovamento di “mitragliatrici nascoste in un cantiere navale” riconducibili a prestanome della camorra legati al traffico d’armi verso la Libia, precisando con fermezza: “La politica non c’entra assolutamente nulla“.
“Quella raccomandazione. Come sono entrato in Rai!”, la rivelazione di Ranucci
Ranucci ricorda i suoi inizi in Rai con un aneddoto disarmante: “Entrai in Rai con la raccomandazione della segretaria di un dirigente cui davo lezioni di tennis“. Lezioni pagate in nero, puntualizza divertito, aggiungendo “meno male che allora non c’era Report, perché mi avrebbero fatto il paiolo“. Quella porta aperta nel 1989 avrebbe dato avvio al percorso che lo condurrà alla guida del più noto programma d’inchiesta italiano, e oggi anche allo spettacolo Diario di un trapezista, ispirato al suo libro La scelta.
Sul futuro professionale conferma un lungo colloquio con Urbano Cairo, nato da una proposta editoriale e poi sconfinato in discussioni televisive. Nonostante ciò, ribadisce la volontà di restare nel servizio pubblico: “Dipenderà dalla Rai, non da me“. Sottolinea però che il marchio Report appartiene all’azienda e non potrebbe seguirlo altrove, mentre un eventuale New Report sì. In quel caso, afferma senza mezzi termini, l’intera redazione lo seguirebbe: “Se mi sposto io, qua non ci rimangono nemmeno i cassetti“.
Un modo netto per rivendicare che l’anima della trasmissione non risiede solo nel nome, ma nella libertà editoriale che l’ha sempre contraddistinta.