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Coronavirus, l'appello del dottor Macchione: "Stare a casa è un atto d'amore"

intervista medico san paolo

Il dottor Macchione, urologo dell'ospedale San Paolo di Milano, ci racconta il Coronavirus visto dagli occhi di un medico in prima linea nella lotta a questa pandemia.

Medici, infermieri e operatori socio sanitari sono in prima linea nella dura battaglia contro il Coronavirus. Per farlo mettono ogni giorno a rischio la loro stessa vita per salvare la nostra. Il dottor Macchione è uno dei tanti sanitari che in questo periodo si è trovato a fronteggiare tale emergenza. Nicola Macchione è un urologo in forza al reparto di Urologia dell’Ospedale San Paolo di Milano, il polo universitario dell’ ASST Santi Paolo e Carlo. Da un mese, a causa dell’emergenza Coronavirus, combatte questa difficile guerra in prima linea con i colleghi internisti.

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Dottor Macchione, come mai è avvenuto questo passaggio fra reparti?

“Il passaggio è avvenuto perché l’azienda sanitaria, avendo previsto quelli che potevano essere i numeri dell’emergenza, ha fatto sì che parte del personale, che normalmente non si occupa di questo tipo di pazienti, venisse affiancato e formato dai colleghi che tutti i giorni trattano pazienti con insufficienza respiratoria. Sono stati infatti creati ad hoc dei reparti Covid, che hanno visto l’arruolamento di personale sanitario proveniente da tutti gli altri reparti, utilizzando le risorse interne.”

Come si trova a lavorare in un ambito in cui non è specializzato?

“Siamo tutti medici. Durante il nostro percorso di formazione ci siamo occupati di insufficienza respiratoria e anche nei reparti urologici spesso abbiamo pazienti che si presentano con questi problemi, per cui in qualche modo non sono condizioni cliniche a noi estranee. Ad ogni modo l’immediato affiancamento ai colleghi specialisti in pneumologia e malattie infettive, ha fatto sì che si creassero fin da subito le condizioni migliori per lavorare in equipe, anche nel caso di un’eventuale necessità estrema.”

In altri ospedali è stata lamentata proprio la mancanza di dispostivi. Da voi è sempre stato tutto sotto controllo?

“La direzione ospedaliera in questo si è mossa in modo fantastico, in concerto con la medicina del lavoro. Non sono mai mancati i dispositivi di protezione individuale. Non a caso nella nostra azienda ad oggi abbiamo registrato un numero di infetti tra gli operatori sanitari molto al di sotto della media nazionale. Si parla di un 3,1% contro la media nazionale ben più alta. Su 5000 dipendenti sono stati eseguiti oltre 2000 tamponi, e dei positivi oltre l’80% si presentava con un quadro clinico di completa asintomaticità.”

Quale è la reale situazione degli ospedali lombardi?

“Sicuramente la situazione è in miglioramento, anche perché i posti in rianimazione tendono ad essere meno occupati. Ci aspettiamo un superamento della fase di plateau con una lenta ma progressiva discesa per quanto riguarda il numero dei nuovi contagiati. Il discorso però è sempre legato al numero di contagi invisibili, ovvero quei casi sommersi che prima o poi potrebbero diventare “ sintomatici” . Potrebbe verificarsi un piccolo secondo picco legato ai contatti avvenuti tra le persone che non hanno rispettato il decreto, continuando ad uscire di casa e che hanno in qualche modo aumentato il rischio di contagio per se stessi e gli altri.”

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Da dottore consiglierebbe alle persone di indossare una mascherina o una sciarpa quando escono?

“Credo che ognuno di noi debba comportarsi come un “soggetto contagiato asintomatico”. Con ciò intendo che ognuno deve rispettare le regole perché è un potenziale paziente infetto. Quindi restare a casa il più possibile rispettare la distanza di sicurezza, evitare luoghi affollati e indossare la mascherina, in quanto protegge non solo noi dagli altri, ma gli altri da noi stessi, potenziali contagiati. Per quanto riguarda sciarpe o foulard credo offrano un livello di protezione troppo basso per essere presi in considerazione.”

La mascherina che usa la maggior parte delle persone, quella chirurgica, dovrebbe essere usa e getta?

“La mascherina chirurgica è usa e getta, perché con l’utilizzo lo strato più interno tende ad inumidirsi rendendola cosi inutilizzabile. Per quanto riguarda la durata di tali dispositivi, questa varia a seconda dell’azienda produttrice. Vien da se che se uso la mascherina per mezzora non è un problema riutilizzarla, se la uso per sei ore è verosimile che non serva più. In ogni caso piuttosto che non avere la mascherina è meglio riutilizzarla, a patto che sia ancora integra.”

Al momento si sa che purtroppo non c’è ancora un vaccino. Al San Paolo come siete organizzati?

“Il nostro ospedale, in accordo con le direttive nazionali autorizzate dall’ AIFA l(Agenzia Italiana del Farmaco) utilizza un protocollo standard. Questo consiste, come terapia di base, nell’impiego di Plaquenil-Azitromicina associati ad eparine a basso peso molecolare con effetto antitrombotico, perché si è visto che in questi pazienti c’è una trombosi del microcircolo polmonare ed un aumentato rischio trombotico in generale. Inoltre in pazienti selezionati (che presentano la reale necessità) si utilizzano anticorpi monoclonali che agiscono inibendo la cascata delle citochine pro-infiammatorie; una tra tutte IL-6. Tra questi il più noto è il TOCILIZUMAB; fino a ieri usato per curare i pazienti affetti da artrite reumatoide.”

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Una domanda personale: in queste settimane di emergenza, qual è la cosa che le è rimasta più nella mente o nel cuore?

“Quello che più segna le nostre giornate COVID, sono le storie di questi pazienti. Nonostante gli sforzi, ti porti sempre in qualche modo dentro un pezzo della loro storia personale, che talvolta è imprescindibile dalla malattia stessa. Molto forte e sempre presente è la sensazione di solitudine in cui vivono la loro malattia, anche per l’isolamento forzato che il trattamento di questa patologia prevede. Le nuove tecnologie ci aiutano in questo senso, perché grazie ai dispostivi tecnologici i pazienti sono potuti entrare in contato con i propri familiari, anche in modo visivo e questo in qualche modo li aiuta a farli sentire meno soli. Un grosso aiuto ci arriva dai colleghi della Psicologia Clinica che per i sanitari hanno creato in ospedale una SALA DI DECOMPRESSIONE, mentre per sostenere i pazienti nell’affrontare l’aspetto psicologico di questa patologia; sono sempre presenti a prestare il loro supporto.”

Dottore cosa vorrebbe dire a tutti i cittadini che la leggeranno?

“Restare a casa è un atto d’amore verso sé stessi e verso gli altri. Restiamo a casa perché siamo tutti potenzialmente delle “gambe” per il virus. Il virus senza di noi non va da nessuna parte, nè rimane nell’aria da solo. Fermare i contagi si può se si rispettano le regole e ci si comporta secondo i principi dettati dal nostro ministero. Se proprio si presenta la necessità di uscire allora si indossano i dispostivi di protezione individuale.”