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Coronavirus, il racconto dell'infermiere: "A Bergamo era un inferno"

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L'infermiere della Croce Rossa Angelo Pedone ha raccontato i terribili giorni trascorsi all'ospedale di Bergamo in piena emergenza da coronavirus.

Per vent’anni infermiere presso il Policlinico Gemelli di Roma, il sottotenente in congedo del corpo militare della Croce Rossa Angelo Pedone non avrebbe mai potuto immaginare lo scenario che si è trovato di fronte quando ha deciso di partire per Bergamo, offrendosi volontario per dare una mano nel fronteggiare l’emergenza coronavirus nella città lombarda. Pedone ha raccontato ai giornalisti dei terribili momenti passati durante quei giorni in cui niente sembrava potesse migliorare.

Coronavirus, il racconto di Angelo Pedone

Nonostante gli anni di esperienza nell’esercito, con il quale ha partecipato alle missioni in Afghanistan e a Mare Nostrum, il sottotenente Pedone ha affermato di non aver mai vissuto uno scenario come quello di Bergamo: “La lunga fila di ambulanze in attesa ore davanti al Pronto Soccorso, che non aveva spazio per accogliere altre persone. L’ossigeno che a volte scarseggiava, perché le chiamate erano continue e non c’era tempo di prendere nuove bombole prima di ripartire. Le luci deboli nei corridoi, le finestre chiuse, il caldo tremendo. Non dimentico gli sguardi terrorizzati dei pazienti e quelli degli infermieri, che dopo tanti giorni e decessi, apparivano rassegnati ma continuavano a lavorare senza sosta”.

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Il militare inizia il suo racconto parlando di come decise di rendersi subito disponibile una volta presa coscienza delle notizie che giungevano dal Nord Italia: “Il turno iniziale è stato il più difficile. Era di notte. La prima settimana è stata drammatica, eravamo tre per trenta pazienti. La responsabilità era enorme. Toglievi il casco per dare da bere o un farmaco al malato e questo non respirava, dovevi essere certo di fare tutto velocemente e bene”.

I primi giorni della pandemia son stati i più duri, con pochi infermieri che dovevano assistere decine di pazienti in un unico reparto. A fine turno molti di questi morivano senza che gli operatori sanitari potessero fare nulla per salvarli: “Era terribile. Persone forti, che fino a qualche giorno prima stavano bene, ormai erano annullate. Molte morivano. Non sono mai venuti preti a dare benedizioni nei miei turni, erano pochi, dovevano dividersi tra tanti. Siamo dovuti diventare esperti nella gestione delle salme, tutto andava fatto velocemente.

I timori del contagio

L’ansia per un eventuale contagio da coronavirus non c’era però soltanto all’interno dell’ospedale, ma anche una volta tornato in albergo: “La paura c’era sempre, anche in hotel, guardavi il cuscino e ti domandavi come fosse stato pulito, se la cameriera fosse stata in altre stanze e simili. […] Sono preparato a situazioni drammatiche come i colleghi sul posto, ma nessuno si aspettava una cosa simile. Da fuori si capisce il 30% della situazione. Quando questo sarà finito, bisognerà rivedere tutto, strappare molti libri. Serve tanta ricerca”. Il sottotenente conclude il suo racconto affermando: “Il 23 riprenderò servizio al Gemelli. Se ci sarà bisogno, comunque ripartirò”.