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Silvia Romano: "La conversione? Avevo bisogno di credere in qualcosa"

Silvia Romano appena giunta in Italia

Dopo diciotto mesi di prigionia, Silvia Romano spiega la sua conversione all'Islam: "Avevo bisogno di credere".

Silvia Romano spiega così la sua conversione all’Islam: “Avevo bisogno di credere in qualcosa“. Lo dice con serenità la giovane rimasta ostaggio per 535 giorni dei miliziani di Al-Shabaab, un gruppo terroristico affiliato ad Al Qaeda che l’ha tenuta prigioniera tra Kenya e Somalia: “Avevo bisogno di credere in qualcosa, di conoscere le ragioni di quanto mi stava accadendo. Ho espresso la volontà di diventare musulmana. Ho recitato le formule e ho dichiarato che Allah è l’unico Dio. È durato tutto pochi minuti. Nessuno mi ha obbligata, è stata una mia scelta. E in quel momento ho scelto di chiamarmi Aisha” ha riferito la giovane ai suoi inquirenti in un lungo interrogatorio.

Silvia Romano, da Chakama al rapimento

Il 20 novembre 2018, Silvia Romano si trovava a Chakama, un villaggio del Kenya a circa 80 km da Malindi. Faceva la volontaria per Africa Milele, una ong di Fano che aveva una piccola scuola. Stando a quanto riferito dalla giovane al magistrato Sergio Colaciocco e al colonnello del Ros Marco Rosi, qualche giorno prima di quel novembre 2018, nel villaggio l’avevano cercata due uomini: “Non ho dato importanza alla cosa” riferisce. Poi il rapimento in moto e l’arrivo in Somalia a piedi, attraversando la giungla.

La prigionia e la conversione all’Islam

Durante i 18 mesi della prigionia, Silvia assicura di non essere mai stata picchiata né violentata. Chiede di poter scrivere un diario e anche di leggere: le portano un quaderno dove scrive di tutto. L’unico libro che le danno è il Corano. Da quel momento, inizia la sua conversione all’Islam: “Pregavo e guardavo video” dice agli inquirenti. La giovane riferisce che le vengono mostrati i video dell’emittente Al Jazeera sulle notizie dal mondo, così riesce a tenersi informata. Parla con il suo carceriere di Islam e alla fine prende parte alla shahada, la cerimonia di adesione all’Islam. Da quel momento prende il nome di Aisha.

Silvia Romano è libera

Nell’interrogatorio la giovane riferisce che i suoi carcerieri le comunicano la liberazione. Per tre giorni viaggia su un carretto fino a giungere all’ambasciata italiana a Mogadiscio, dove è accolta dall’ambasciatore Alberto Vecchi. Quando le chiedono se desidera qualcosa, lei risponde: “Una pizza“. Non cambia gli abiti che le hanno dato: indossa il velo e chiede di tenerlo perché convertitasi all’Islam. Con gli stessi abiti giunge in Italia e abbraccia i suoi cari accorsi a salutarla con le istituzioni.

“Avevo bisogno di credere in qualcosa”

Si dice serena Silvia. Dalla sua conversione, indossa un velo per coprirsi il capo. I familiari la tengono lontana da giornali e televisione. La giovane è stata sottoposta a un interrogatorio di un’ora e mezza e ha dovuto testimoniare davanti ai Carabinieri che stanno indagando sulle minacce di morte che le sono state fatte in questi giorni. Per molti, la “colpa” è essersi convertita all’Islam. Durante l’interrogatorio, la giovane ha dichiarato: “Nessuno mi ha obbligata […] Avevo bisogno di credere in qualcosa”. Intercettata dai giornalisti, sua madre a placato le polemiche dicendo: “Provate a mandare un vostro parente due anni là e voglio vedere se non torna convertito“.

È l’appello di una madre verso una ragazza che suo malgrado è rimasta prigioniera per 18 lunghi mesi. Avrà bisogno di tempo per elaborare il tutto e ricominciare a vivere una vita normale, da ragazza di soli 24 anni.