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Coronavirus, è bene che il giornalismo torni a fare il giornalismo

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Giornalisti e scienziati hanno il dovere di proteggere la salute pubblica, perchè "il coronavirus non legge gli articoli e non gli importa di Twitter".

Diceva Alberto Moravia: «Quando le informazioni mancano, le voci crescono». C’è un sottile fil-rouge che lega comunicazione, pandemia e il rischio che le file dei negazionisti anti-Covid aumentino sempre di più, con tutto quello che ne potrebbe derivare. Al di là dei doverosi distinguo (e ci mancherebbe), non c’è alcun volo pindarico tra chi va in televisione a dire che è tutta invenzione del governo, che i dati non sono allarmanti, che le istituzioni giocano con la paura della gente, e chi sottovaluta la pandemia, non indossa la mascherina o, nel peggiore dei casi, scende in piazza convinto che il Covid-19 semplicemente non esista. Parliamoci chiaro: i primi sono causa (indiretta) dei secondi. Specie se i primi hanno un pubblico di riferimento, persone che li seguono, li ascoltano, si fidano. Ed ecco, allora, che non aveva tutti i torti il professor Massimo Galli quando, a proposito di Flavio Briatore, ha detto, senza mezzi termini: «Imprenditori come lui hanno contribuito a essere meno attenti».

Il fatto che ci sia una sorta di fato beffardo con il Covid-19 per cui puntualmente chi sottovaluta la pandemia finisce col risultare positivo, è cosa ormai nota. Ciò che invece sembra sfuggire è, invece, il fatto che proprio coloro che hanno vissuto in prima persona il coronavirus, oggi siano tra i primi a sottovalutare il pericolo. Di nomi se ne potrebbero fare tanti, a cominciare proprio da Flavio Briatore. Dopo essere stato ricoverato a Milano per l’ormai famosa «prostatite», l’imprenditore non ha battuto ciglio ed è tornato all’attacco del governo e della comunità scientifica. La ragione? L’allarme generalizzato che ha portato ai vari dpcm dell’ultimo periodo e alle nuove restrizioni è farlocco. «Giocare con la paura della gente è una porcheria», ha detto non a caso Briatore. Il cui ragionamento è piuttosto contorto: per l’ex team manager è sì assolutamente necessario rispettare il distanziamento sociale e utilizzare le mascherine, ma non ha senso il presunto “clima di paura” in cui siamo ripiombati e che sarebbe stato creato ad arte.

Ed è questo il punto. Il fatto che ci sia un interesse nascosto dietro tutta questa situazione, un complotto indicibile e misterioso, è l’humus che alimenta la base dei negazionisti e dei no-mask. Fa niente se il non-sense di questo teorema è evidente a chiunque abbia un briciolo di senno: che interesse avrebbero le istituzioni a tenere un’intera comunità bloccata e ferma a regole rigide? Se dietro tutto questo ci fosse soltanto un interesse “elettorale” è evidente che converrebbe tranquillizzare la popolazione piuttosto che “condannarla” a restrizioni che inevitabilmente faranno perdere consensi. Ergo: se tali misure sono state prese – col placet della comunità scientifica – probabilmente sono state ritenute necessarie. Non per convenienza politica, ma a discapito della convenienza politica.

E qui entra in gioco un altro anello della terribile catena del non-sense, forse il più delicato e quello che rischia di uscire dalla pandemia fortemente compromesso: il giornalismo. Esattamente come Flavio Briatore, anche Nicola Porro ha vissuto in prima persona il Covid-19. Eppure anche lui, come tanti altri, è convinto che le misure adottate non abbiano alcun senso se non quello di privarci delle nostre libertà. Basta citare, a mo’ di esempio, il titolo di un articolo pubblicato sul suo blog: «Dopo Lenin e il Duce, occhio al coronavirus». E torniamo al punto: l’allarme lanciato da una fetta dei giornalisti italiani è che c’è il rischio di essere ingiustamente privati della nostra libertà, come fossimo in una dittatura. Esattamente ciò che contesta chi decide di non indossare la mascherina o scendere in piazza per protestare contro quella che qualcuno (gli estremisti di destra) ha già ribattezzato «dittatura sanitaria».

Certo, personaggi di spicco come Briatore e Porro, pur essendo critici, specificano la necessità di rispettare il distanziamento sociale e tutte le regole che ci vengono imposte. Il problema, però, è che tale comportamento “da gambero” finisce con l’instillare un dubbio che alimenta paure e incertezze e che esplode poi in comportamenti scorretti o manifestazioni ai limiti dell’assurdo. Questo, ovviamente, non vuol dire non poter essere critici contro i singoli provvedimenti delle istituzioni: bisogna, però, criticare nel merito, senza lasciar intendere che questa o quella norma sia frutto di una strategia che voglia consapevolmente minare la libertà di ognuno, o che il Covid-19 sia semplicemente un “alibi” per acquistare punti elettorali.

Non bisognerebbe cadere in questi errori, specie in un momento fortemente delicato come quello che stiamo vivendo nel quale all’emergenza sanitaria potrebbe cedere il passo quella psicologica. È bene che il giornalismo torni a fare il giornalismo anche per questa ragione. Come? In un articolo pubblicato sul blog Scientific American e ripreso da Valigia Blu, Bill Hanage e Marc Lipstich, entrambi professori di epidemiologia alla Harvard T.H. Chan School of Public Health, scrivono che emergenze come quella della pandemia del Coronavirus portano grosse pressioni sia su scienziati che giornalisti, che vogliono essere i primi ad avere le notizie. Il rischio è quello di accettare standard giornalistici più bassi per avere facili “ricompense” in termini di attenzione, contribuendo alla diffusione di informazioni non accurate (quando non false) o di non correggerle rapidamente. «Abbiamo la responsabilità comune di proteggere la salute pubblica», affermano i due scienziati, «il virus non legge gli articoli di giornale e non gli importa di Twitter».