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Massimo D’Alema a Notizie.it: "La Sinistra deve essere democratica ma non populista"

intervista a massimo d'alema

Intervista all'ex premier Massimo D'Alema, tornato in libreria con "Grande è la confusione sotto il cielo. Riflessioni sulla crisi dell'ordine mondiale".

Massimo D’Alema torna in libreria con Grande è la confusione sotto il cielo. Riflessioni sulla crisi dell’ordine mondiale, pubblicato da Rosso e Nero. Al centro della riflessione dell’ex presidente del Consiglio c’è il caos di un mondo multipolare, costellato di focolai di crisi e diviso tra leadership di opposto colore. Intervistato da Notizie.it, D’Alema affronta la delicata questione della posizione dell’Italia e dell’Europa sul policentrico scacchiere internazionale, ma anche l’incontro-scontro di civiltà nel Mediterraneo e le conseguenze dell’influenza cinese, per finire con una lettura del panorama politico italiano all’indomani del referendum e delle elezioni regionali.

Intervista a Massimo D’Alema

Nel suo ultimo libro lei rileva – e rivela – una tendenza, già in atto, verso un mondo multipolare, policentrico. Le politiche vanno cioè via via aggregandosi in aree che consentono di affrontare problemi comuni meglio che a livello nazionale (vedi non solo l’Ue, ma anche ASEAN). In tale contesto, per l’Italia, cercare di affrontare questa situazione nella vecchia prospettiva dualista, cercando la “protezione” di Stati Uniti o Cina, senza quindi contiguità territoriale, non sarebbe come cercare riparo dalla pioggia sotto una nuvola?

Io penso che non c’è riparo dalla pioggia. Nel senso che il clima delle relazioni internazionali continuerà a degenerare verso uno scenario di Guerra Fredda che si sta delineando nei fatti. Specialmente per un Paese come l’Italia, questo comporterà dei danni molto gravi. La ragione principale è economica, legata al fatto che siamo un paese esportatore che ha tutto l’interesse ad un clima di relazioni internazionali aperto. Da questo punto di vista, come appare evidente, il conflitto tra Stati Uniti e Cina ci danneggia enormemente.
Penso a scelte di questi giorni legate a questa tensione che possono comportare danni gravi per la nostra economia. In particolare, la rinuncia al 5G che per l’Italia significa concretamente rallentare di alcuni anni l’innovazione tecnologica e quindi la competitività della piccola e della media industria. La tensione non ci aiuta.

Che cosa può fare l’Italia?

L’Italia da sola non ha grandi possibilità di cambiare il clima delle relazioni internazionali. Mai come in questo momento appare evidente che, nel conflitto tra i due grandi poteri, dev’essere l’Europa nel suo insieme a svolgere un ruolo. Non credo che i singoli paesi possano giocare un ruolo singolarmente. Neppure la Germania.

Quindi possiamo giocare un ruolo indiretto all’interno dell’UE?

Certamente sì.

La questione cinese

Come emerge dalle sue analisi, in controtendenza con questa dinamica la Cina cerca invece di estendere la sua area di influenza in maniera trasversale, senza una continuità geografica. Sta accadendo in Africa…

Tradizionalmente, l’influenza cinese non è mai stata di tipo militare. Nella sua storia di 4000 anni, la Cina non ha mai invaso nessuno. Basti pensare che il simbolo della Cina è una Grande Muraglia, il simbolo di un paese che teme di essere invaso più che di un paese di invasori. La politica di allargamento dell’influenza cinese è sempre stata la strategia di una grande potenza economica, in particolare commerciale (e anche culturale per certi versi).

Coerentemente con la sua storia millenaria, anche le politiche della Cina verso l’Africa non sono quindi frutto di ambizioni militari. Sono volte semmai al controllo delle materie prime intese in senso ampio (a partire dal cibo) a fronte di un problema di riserve di risorse limitate rispetto alla massa della popolazione. Né più e né meno di quello che ha fatto la civiltà occidentale. Tuttavia, in questo momento, proprio in Occidente, c’è una grande campagna di propaganda contro la Cina, costruita anche su suoi errori. Teniamo però presente che, tuttora, il controllo esercitato sulle risorse minerarie e petrolifere africane dalle grandi compagnie occidentali è molto maggiore.

Per decenni la Cina è stato un paese ripiegato su stesso, è vero, ma a partire dalle grandi modernizzazioni degli anni ’90 si è affacciata nel mondo quale grande potenza di cui non si può non tenere conto. Si tratta semmai di capire in che misura questa crescita della potenza cinese possa essere un’occasione positiva per tutti. Questo dipende molto dal modo in cui i cinesi eserciteranno il loro ruolo, ma anche dall’atteggiamento del mondo occidentale.

Il Mediterraneo, incontro-scontro di civiltà

Non ci sono solo vaste aree geografiche che tendono ad aggregarsi o ambizioni di domini “trasversali”, esistono anche “aree culturali”. Il Mediterraneo è una di queste.

Sì e no. L’apparizione dell’Islam – più di mille anni fa – sulla scena ha posto fine all’unità culturale del Mediterraneo. Da quel momento, il Mediterraneo è divenuto più che altro un’area di convivenza di civiltà. Questa convivenza è stata per molte fasi una convivenza conflittuale, ma è stata anche una convivenza pacifica. Talvolta addirittura tutte e due le cose insieme. Qualche tempo fa ho presentato un bellissimo libro di un Padre Trinitario, pubblicato in inglese ed arabo. Questo libro ricostruisce, tramite straordinarie ricerche di archivio, il dialogo sotterraneo tra la Santa Sede e il Saladino durante le Crociate favorito dalla mediazione proprio dei padri trinitari. È straordinario vedere come anche nei momenti di più drammatico conflitto non si sia mai realmente interrotto il dialogo tra civiltà.

Oggi in che fase siamo?

Oggi il Mediterraneo vive una fase di conflitto drammatica. Molti errori sono stati fatti dai popoli occidentali. Abbiamo favorito la disgregazione del mondo arabo senza avere un chiaro progetto di come si poteva ricostruire un ordine. Il Mediterraneo è attraversato da conflitti irrisolti e da una aspra contrapposizione anche di carattere culturale che rischia di radicalizzare l’ostilità reciproca tra mondo occidentale e mondo islamico.

Sovranismo ed europeismo nel post Covid

Lei dice che “il problema dell’UE non nasce dal fatto che l’Europa impone vincoli ma dal fatto che questi vincoli sono a senso unico”. A rigore, quindi, la soluzione non sarebbe tanto un ritorno all’intervento pubblico nell’economia, quanto un nuovo modo, a tutti i livelli, a partire da quello comunitario, di intervenire nell’economia da parte del pubblico. Quale?

In questi anni abbiamo registrato un distacco tra l’Europa e l’opinione pubblica dei cittadini europei. Non credo che questa disaffezione sia nata dal fatto che l’Europa ha dimidiato l’autonomia dei singoli paesi. Non trovo convincente questo ritorno di nazionalismo in chiave antieuropea (così detto sovranismo). Il problema è stato semmai il prevalere in Europa di politiche neo liberiste e di austerità che hanno finito per fare apparire l’Europa agli occhi dei cittadini alla stregua di un “Gendarme delle politiche anti sociali”. Credo che il problema sia questo. Non che c’è troppa Europa e dobbiamo sostituire l’Europa con lo Stato nazionale. Il vero problema è che c’è troppo liberismo e noi dobbiamo sostituirlo con la ripresa di una politica sociale. Una questione di sostanza politica. Uno degli aspetti positivi del dopo Covid è proprio il fatto che la reazione europea alla crisi della pandemia, pur in un quadro problematico, ha segnato una svolta.

Si riferisce al Recovery Fund?

Non mi riferisco tanto o solo al Recovery Fund, ma a due decisioni di importanza anche simbolica: la decisione di mettere da parte il dogma del patto di stabilità ed il via libera alla BCE per fare una politica sistematica di acquisto di titoli pubblici che per noi è una vera ricchezza. Altro che sovranismo. Insomma, l’Europa per molti anni ha sofferto un eccesso di liberismo, ma in questo momento ha scelto una politica espansiva che tuteli le persone.

Nel suo libro emerge anche un altro punto che le reazioni dell’Europa alla crisi sanitaria non sembrano avere scalfito. In particolare, mi riferisco all’applicazione rigida delle regole su concentrazioni e aiuti di stato (penso all’ “attenzionamento” dell’Italia nell’operazione sulla rete unica Tim).

Anche da questo punto di vista come Europa siamo stati a lungo vittima dell’ossessione del contenimento della presenza dello Stato a garanzia della libertà del mercato. Questa idea poteva avere un senso venti anni fa. Nel mondo della competizione globale la sfida è tra sistemi. In una tale compagine, una partnership tra pubblico e privato deve esserci necessariamente.

L’Europa ha bisogno di recuperare gli strumenti di una politica industriale che non è solo garantire la libertà del mercato, ma anche la capacità di fare scelte, come quella di fare crescere grandi campioni europei necessari per reggere la competizione internazionale, appunto. Anche da questo punto di vista, quindi, c’è il ritorno del tema della presenza dello Stato nell’economia, rispetto al quale abbiamo sofferto il peso di un sovraccarico di ideologia neoliberista. Dobbiamo recuperare la visione del ruolo dello Stato come grande attore di politiche industriali e di innovazione.

Politica, regionali e referendum

La sensazione è che a questa tornata a fare la differenza sui risultati regionali – di Puglia e Toscana in particolare – potrebbe essere stata una preferenza da parte dell’elettorato nei confronti della linea del governo nazionale rispetto alla prospettiva di una destra sovranista. Ma ha vinto anche una certa idea di sinistra?

Il risultato elettorale mette un argine alla crescita della destra che però continua (governa 15 regioni). Questo risultato è tanto più importante per la tenuta della maggioranza in quanto lo schieramento di governo è andato diviso e nonostante ciò non ha perso. Le elezioni dimostrano che l’idea che l’opposizione fosse largamente prevalente del paese non è fondata. In questo modo, si attenua anche la possibilità di elezioni anticipate ed il governo entra in una fase di relativa stabilità.

Ma, nonostante io sia stato da subito molto favorevole alla formazione di questo governo, i problemi rimangono tutti davanti a noi. Da una parte, il centrosinistra, anche in queste regionali, si è giovato anche di figure riconducibili a un populismo di sinistra. Bisogna poi che questa esperienza di governo sia accompagnata dalla crescita di un progetto politico che tarda ad arrivare. Il tema non è quindi solo quello di un’azione di governo che sappia cogliere l’occasione del Recovery Fund come occasione di rifondazione di politica italiana. C’è anche il tema politico di come si ricostruisce il campo di una sinistra democratica non populista. Il tentativo di costruire alternative al Pd nell’ambito della sinistra più classica non ha partorito risultati convincenti, ma il tema rimane.

E il Movimento cinque stelle?

Ecco, dall’altra parte il Movimento cinque stelle si trova di fronte ad una crisi della sua narrazione. Il M5S teorizzava la fine della distinzione tra destra e sinistra. Una volta entrati nelle istituzioni hanno potuto constatare l’infondatezza di quell’impianto culturale. Destra e sinistra c’erano. Tanto è vero che il M5s ha appurato l’impossibilità di governare con la destra e ha deciso di governare con la sinistra. La leadership del Movimento cinque stelle aveva, ed ha, quindi, il dovere di prenderne atto e produrre un aggiornamento di narrazione. Se ciò non avviene, la crisi sarà inarrestabile. Perché è una crisi che non dipende dall’avvicendamento di questo o quel leader, ma da ragioni profonde, culturali, esistenziali.

A fronte del 97% di voti a favore in parlamento, i risultati referendari hanno registrato un 30% di voti a favore del “no”. Un risultato che ha implicazioni politiche, di rappresentanza di un fantomatico “elettorato del no”?

Il no registra un tasso di fastidio per l’antipolitica, a prescindere dal merito della questione. Non credo che il referendum abbia scardinato la democrazia rappresentativa. Bisogna adesso, semmai, trarre delle conseguenze in termini di riforme della legge elettorale e dei regolamenti parlamentari per fare in modo che la riforma non ostacoli il necessario rilancio delle prerogative, del ruolo, della centralità del parlamento. Questo significa farsi carico sia delle ragioni del sì che di quelle del no.