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Robert Harris: Abbiamo avuto la Brexit, non avremo mai un repubblica

author harris oblio e perdono

Robert Harris, lo scrittore inglese apprezzato in tutto il mondo per i suoi bestseller storici, non ha dubbi: God save the queen e continuerà a salvarla.

“Se oggi abbiamo un altro re Carlo, se in Inghilterra non si tornerà più a parlare di restaurazione della Repubblica, è anche perché ricordiamo molto bene il fallimento dell’unico esperimento che abbiamo avuto”. Robert Harris, lo scrittore inglese apprezzato in tutto il mondo per i suoi bestseller storici, non ha dubbi: God save the queen e continuerà a salvarla. Era Il 19 maggio 1649 quando un Parlamento già decimato dai repubblicani (il Rump Parliament) e controllato da Oliver Cromwell, proclamava con un atto legislativo il Commonwealth of England, la Repubblica d’Inghilterra, decretando la fine della monarchia e la successiva esecuzione capitale del re Carlo I Stuart. La Repubblica di Cromwell durerà appena 11 anni e un nuovo re, Carlo II, ripristinerà la monarchia, ma a Harris, cui non manca di certo il fiuto per gli argomenti da trattare, a questa vicenda, e a quello che ne segue, ha dedicato la sua ultima fatica: Oblio e perdono, pubblicata da Mondadori con la traduzione di Annamaria Raffo (pagg. 444, euro 22).

cover harris oblio e perdono

Giornalista e scrittore, diventato noto al grande pubblico nel 1992 con Fatherland, romanzo ucronico in cui immagina un diverso corso della Seconda guerra mondiale con un’Europa nel 1964 ancora sotto il dominio nazista, fa seguire, in un curioso pendolo tra antichità e quasi contemporaneità, romanzi ambientati sia nell’antica Roma (Pompei, Imperium), sia nel Novecento (Enigma, Il ghostwriter, V2), tutti con un chiaro marchio di fabbrica: una rigorosa ricerca storica e un’accuratissima ricostruzione di ambienti e personaggi. Con Oblio e perdono l’obiettivo si sposta sulla prima colonia del nord America, il Massachussets, costituita nel 1620, quarant’anni prima degli eventi narrati nel libro, dai “padri pellegrini e dove si rifugiano, braccati dai realisti tornati al potere, due dei cinquantanove congiurati che hanno sottoscritto la condanna alla decapitazione di Carlo I: il colonnello Edward Whalley e il genero William Goffe.

Intervistato da Notizie.it in occasione della presentazione del libro a Bookcity a Milano, Harris si dichiara profondamente convinto che la Repubblica inglese sia stata un evento storico di enorme importanza, non solo per il suo Paese. “ E’ stato il primo caso di sovvertimento rivoluzionario di una monarchia, 150 anni prima della Rivoluzione francese, 250 prima di quella russa. Forse questa vicenda non è mai entrata a far parte dell’immaginario popolare perché è indubbiamente complessa, così come è stato complesso per me scrivere questo libro”.

Nel libro c’è un parallelismo interessante tra Vecchio e Nuovo Mondo, la guerra civile in Inghilterra e la genesi della colonia da cui si formeranno gli Stati Uniti…

Con questo romanzo ho intravisto la possibilità di scrivere di politica non solo al passato ma per capire meglio il rapporto tra parlamento e monarchia anche allo stato attuale delle cose. All’epoca in Inghilterra le due fazioni, parlamentari e realisti, sono arrivate a prefigurare la possibilità di una specie di «oblio«, una ricomposizione pacifica dei rapporti fra il re e il parlamento che ha portato alla realtà odierna. Oggi il mio paese è certamente molto diviso, ci sono problemi politici e una grande instabilità, ma il fatto che vi sia una separazione netta tra parlamento e monarchia è un fattore di grande forza e stabilità. Altrimenti ci troveremmo nella situazione degli Stati Uniti e a ripetere gli stessi errori di Trump…

Come spesso succede, per capire qualcosa del presente bisogna rifarsi alle origini…

Ai tempi raccontati nel romanzo vivevano nel New England circa 30.000 coloni appartenenti a diverse credenze religiose, e io ho cercato di spiegare il perché questa gente è riuscita poi a liberarsi dalla madrepatria inglese e a diventare uno stato autonomo. Il rigorismo religioso è un aspetto essenziale di quel periodo: Walley, ma anche Cromwell e i regicidi che salgono coraggiosamente al patibolo, credevano che Dio fosse dalla loro parte. Da questa fede attingevano l’energia per affrontare i rischi e la morte. Ed è la peculiarità di questa nuova terra d’oltremare, con i suoi diritti religiosi che ancora oggi vietano l’aborto e non rendono possibile comprare birra fino a alle 21.

Secondo lei perché la rivoluzione in Inghilterra è fallita ed è rimasta la monarchia?

In quel tempo il paese aveva bisogno di un solo leader o di una famiglia, come quella reale, che accentrasse il potere dello stato, non certamente di vari comitati costituiti in modo occasionale per governarlo. Cromwell l’aveva capito e per questo si era trasformato in un dittatore. Sarebbe anche potuto diventare re, ma non ci riuscì perché non aveva intuito come si doteva guidare lo Stato. Sono i contrasti di allora che si ripetono anche oggi.

Lei ha iniziato come giornalista e poi saggista, scrivendo anche di Hitler, della guerra nelle Falkland, di Margareth Thatcher. Fatherland è stato il suo primo romanzo storico: che cosa l’ha spinta a passare dalla saggistica al romanzo?

Quando iniziai a occuparmi dello scandalo dei diari di Hitler mi resi conto che dovevo rendere la storia plausibile, inserire dei personaggi che sembrassero reali e convincenti. Ho pensato allora che la narrativa fosse uno strumento, un viatico alle idee per decollare. Orwell diceva che lo scrittore politico deve usare anche personaggi e storie di fantasia per esprimere al meglio le sue idee. Ho seguito in un certo senso il suo consiglio… Io vado a cercare situazioni problematiche che possono mettere in scena dei contrasti, e da lì nascono i personaggi. Per esempio, la storia romana è un argomento universale, è possibile partire da lì per arrivare all’oggi, ma non viceversa.

Un piede nel passato e uno nel presente…

Per me la narrativa storica è un modo per occuparsi della contemporaneità, è il passato che ritorna e si modernizza. Alle volte mi sento come un viaggiatore nella macchina del tempo. La fiction storica mi dà la possibilità di assumere una diversa postura sulla storia. Ci sono i fatti e c’è il significato che attribuiamo ad essi. Il vantaggio della fiction è che puoi guidare il lettore al significato di quanto stai scrivendo, cosa che non può fare il giornalista o lo scrittore di narrativa. Ad esempio, inventare monologhi o dialoghi che contribuiscono a una maggiore comprensione, creare empatia con i personaggi. E vale anche per me: se come scrittore mi convinco di quanto sia reale il personaggio, la mia esperienza di scrittura diventa più intensa. Ho pubblicato il mio primo romanzo ne 1992 e ne ho scritti poi altri 15. E oggi, a 65 anni, mi rendo conto che non ho nessuna intenzione di smettere.