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Covid, lo studio: cause genetiche alla base delle forme gravi

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Il nuovo studio sul covid: le cause genetiche sono il principale motivo delle forme gravi.

Due articoli pubblicati sulla rivista Science spiegano come, alla base della risposta individuale all’infezione da Covid, diversa da persona a persona, ci siano cause genetiche e immunologiche. Lo studio – coordinato da Jean-Laurent Casanova, della Rockefeller University e condotto dal Consorzio Internazionale di Genetica, Covidhge, al quale l’Italia partecipa con il Laboratorio di Genetica Medica dell’Università di Roma Tor Vergata diretto da Giuseppe Novelli, l’Istituto San Raffaele di Milano e l’Ospedale Bambino Gesù di Roma – segna un importante passo in avanti per le ricadute che potrà avere nella prevenzione, identificando le persone a rischio, e nella terapia.

Covid, lo studio sulle cause genetiche

Nello specifico, più del 10% dei pazienti sani che sviluppano una forma grave di Covid-19 posseggono degli anticorpi che funzionano male: attaccano il sistema immunitario invece del virus. Un altro 3,5% è portatore di una mutazione genetica che predispone alla forma grave della malattia. In entrambi i casi il problema sembra risiedere in una ridotta funzionalità dell’interferone di tipo I, che nel primo gruppo di pazienti viene neutralizzato dagli auto-anticorpi, mentre nel secondo viene prodotto in quantità ridotte a causa della mutazione genetica. Gli interferoni sono molecole che giocano un ruolo chiave nella difesa contro i microbi.

“I risultati – spiega il coordinatore degli studi Jean Laurent Casanova della Rockefeller University di New York – suggeriscono in modo convincente che disfunzioni dell’interferone di tipo I costituiscano spesso la causa delle forme più critiche di Covid-19,. Almeno in teoria, si tratta di disfunzioni che possono essere trattate con farmaci e approcci già esistenti”. “Questo approccio – aggiunge Alessandro Aiuti, vicedirettore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica (SR-Tiget) e professore ordinario di pediatria all’Università Vita-Salute San Raffaele – ci permetterà di scavare sempre più a fondo nei meccanismi molecolari e genetici che spiegano le forme più gravi di Covid-19 e di suggerire terapie mirate per gruppi specifici di pazienti. Questo è solo il primo risultato, ma è già molto promettente”.

Lo studio sugli anticorpi

Analizzando i tessuti di 987 pazienti con forme gravi di Covid-19, gli scienziati del CovidHge hanno scoperto che più del 10% di questi pazienti avevano in circolo auto-anticorpi contro l’interferone I, che è un ingrediente chiave della risposta immunitaria ai virus. Questi auto-anticorpi sono relativamente rari nella popolazione generale: su 1227 individui sani scelti casualmente solo 4 sono risultati positivi al test. Nella maggior parte dei pazienti la positività a questi auto-anticorpi è stata rilevata in campioni di sangue raccolti nei primi giorni dell’infezione, ma i ricercatori ipotizzano che gli anticorpi fossero già presenti prima del contagio e costituiscano quindi un fattore predisponente per le forme gravi. In alcuni casi è stato infatti possibile verificare la presenza degli anticorpi anche in campioni di sangue antecedenti all’infezione. “Pensiamo – spiega Lorenzo Piemonti, direttore del Diabetes Research Institute del San Raffaele e professore associato di endocrinologia all’Università Vita-Salute San Raffaele – che gli auto-anticorpi contro l’interferone possano spiegare una parte rilevante delle forme più aggressive di Covid-19 e del modo in cui queste forme si distribuiscono nella popolazione generale, ovvero colpendo maggiormente le persone di sesso maschile e di età avanzata. Non a caso, dei pazienti che presentavano gli auto-anticorpi, il 95% erano uomini e più del 50% aveva più di 65 anni di età”.

L’altro studio pubblicato su Science dal consorzio CovidHGE conferma che un ulteriore 3,5% di pazienti con forme gravi di Covid è portatore di mutazioni genetiche che impediscono la produzione o l’uso corretto dell’interferone I. “I due studi – afferma Fabio Ciceri, vicedirettore scientifico e professore di ematologia al San Raffaele – si rafforzano a vicenda e suggeriscono che intervenire per ristabilire le corrette quantità di interferone I nelle fasi iniziali dell’infezione potrebbe essere efficace contro le forme più severe di Covid-19, almeno in un gruppo selezionato di pazienti. Ed è proprio in questa direzione che va uno studio clinico in partenza presso il nostro ospedale, che testerà la somministrazione di interferone beta – un tipo di interferone I solitamente usato per la Sclerosi Multipla o forme croniche di epatite – nei pazienti covid-19 gravi”.