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La corsa a ostacoli di Najla "Viva grazie all'atletica"

Najla Aqdeir

La forza di Najla Aqdeir: il matrimonio combinato e il tentato suicidio. Il riscatto nell'atletica: "Sogno di correre in azzurro".

Ho deciso che ci provo, le chiedo un’intervista: la sua storia è troppo forte per non essere raccontata. Vado, le faccio la mia proposta: mi sorride, accetta. La prima volta che l’ho incontrata ero a un incontro in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Najla Aqdeir ha la mia età: è nata nel 1994; eppure la sua vita l’ha costretta a una forza e una determinazione per le quali non posso che abbassare la testa. Non riesco nemmeno a immaginare una madre che a sedici anni vuole costringermi a un matrimonio combinato con uno sconosciuto di trentanove anni, fuggire, venir chiusa in casa da mio padre, tentare il suicidio, sopravvivere, essere allontanata dalla mia famiglia. Eppure a Najla Aqdeir è successo; nel frattempo però è riuscita a diventare una campionessa dell’atletica leggera italiana. Mentre racconta la sua storia, sorride.

Najla Aqdeir, viva grazie all’atletica

Oggi Najla Aqdeir è un nome sempre più importante per l’atletica leggera italiana. La sua specialità sono i 3000 siepi. Nella sua carriera da professionista sogna di raggiungere un podio italiano e, in un futuro non troppo lontano, le Olimpiadi.

Aveva undici anni Najla Aqdeir quando è arrivata in Italia con la sua famiglia. “Sono nata in una capannina in Libia, nel deserto. La mamma è del Marocco, invece il papà è della Libia. Sono arrivata ( in Italia, ndr) nel 2005 con mamma e sorelle e diciamo che mi sono subito trovata bene. Dopo cinque anni in Italia mi ero integrata al 100%. A differenza di mia sorella grande avevo solo amici italiani e vivevo nel mondo dello sport. La mamma però ha deciso di farci tornare dai nonni per salutarli“.

La fuga dal matrimonio combinato

Fino ai sedici anni, nonostante il trasferimento dalla Libia all’Italia, la vita di Najla Aqdeir si era svolta in relativa tranquillità. “Il fatto di essere tornata in Marocco per me era un “sì va bene”: non vedevo l’ora perché era una vacanza. Poi invece lì la mamma aveva deciso tutto per me, cioè aveva deciso la mia vita. Lei e le mie zie mi hanno organizzato questo matrimonio combinato. Diciamo che all’età di sedici anni qui in Italia ho iniziato ad avere i miei primi approcci con i maschi. Quindi mi sono innamorata di questo ragazzo, però era il mio primo ragazzo. Mi sono trovata poi in Marocco a dover comunque accettare un matrimonio combinato a cui io ho detto “assolutamente no”. Non perché avevo il fidanzato qua in Italia, ma perché lui aveva quasi quarant’anni: aveva trentanove anni e mezzo e io ne avevo sedici e non lo conoscevo. Allora mia sorella diceva “dì al tuo fidanzato italiano di sposarti”. “Se glielo dico scappa” ho pensato. Però funziona così: se tu rifiuti un matrimonio e hai un’altra persona devi dire all’altra persona di sposarti. Però deve essere musulmana. Per me era tutto impossibile: non potevo dirlo alla mia famiglia che avevo un fidanzato italiano“.

Non c’era altra soluzione se non fuggire, dal Marocco e dal matrimonio combinato: “Non ho mai pensato a potermi sposare a dir la verità, ho subito pensato a come scappare. Alla fine ho contattato il mio allenatore e il don dell’oratorio a cui ci appoggiavamo e grazie a loro due sono riuscita a fare ritorno in Italia scappando il giorno delle nozze“.

Il ritorno in Italia e il tentato suicidio

Papà era rimasto in Italia. La mamma gli aveva già detto tutto: la vergogna che avevo procurato a lei e a tutta la famiglia. Rifiutare il matrimonio è stato anche un rifiuto nei confronti della famiglia. Ho vissuto una settimana intensa con papà: non mi faceva uscire, non mi faceva andare a scuola, non potevo più fare nulla. Poi è tornata la mamma con le mie sorelle. Non riuscivo più a vivere in quella casa. Allora ho fatto questo gesto di cui mi pento tutt’ora: tentare il suicidio. Pensavo a loro, mi sentivo tanto in colpa, ma non ci potevo fare niente e non ci volevo stare a quelle regole. Poi il mio allenatore è intervenuto un’altra volta a salvarmi la vita: sono finita in coma, sono andata in ospedale e sono stata lì quasi un mesetto, anzi un po’ di più“.

Dopo il periodo in ospedale Najla non poteva più tornare dalla sua famiglia: il tentato suicidio corrisponde a un rifiuto anche della vita religiosa. “Sono andata in comunità e ho iniziato a sentire tanto la solitudine, però avevo tantissimi amici e tantissime famiglie del mondo dell’atletica: mi hanno aiutato tutti e mi trovo qua ora a essere abbastanza autonoma da raccontarlo“.

Il riscatto nell’atletica

Si accumulavano problemi a problemi. I miei genitori tuttora non sono tranquilli. Vorrebbero o che io mi pentissi e tornassi indietro o comunque da qualche parte farmela pagare. Infatti mi hanno inseguito alle gare, rincorso in metropolitana, in giro per Milano. Diciamo che è stata dura, ma non sono sola“.

Ho fatto fatica a riprendere il tutto. La testa non c’era tanto perché comunque non potevo concentrarmi. Un giorno ho sentito questa frase: “L’ostacolo non va saltato, va affrontato e superato“. Da lì ho deciso di voler fare gli ostacoli anche io, ma ero scarsissima. Mi dicevano tutti “se sei fortissima a fare le distanze lunghe, cosa vai a fare gli ostacoli?”. Nessuno capiva, perché nessuno sapeva la mia storia. Il mio allenatore ha detto: “va bene, prova a fare gli ostacoli”. Da lì ho diviso le mie difficoltà principali per cercare di affrontarle una a una e superarle. Dall’altra parte lo facevo con degli psicologi. Così fino ad arrivare quarta ai campionati italiani“.

La corsa verso la libertà

Ora mi trovo disconosciuta dalla mia famiglia. Da una parte sono un po’ abbandonata, ma per la mia felicità si può affrontare anche questo. Cerco di affrontarlo perché sono problemi che ritrovo attualmente nella mia vita. Poter viaggiare e fare tante cose per me è non dico impossibile, ma difficile“. Najla Aqder non ha infatti avuto la possibilità di partecipare alla Coppa Europa del 2018, perché l’Inghilterra, dove si è svolta la competizione, non le ha rilasciato il visto.

Mi sto impegnando tutti i giorni per conquistare un podio italiano, perché penso potrebbe farmi raggiungere il traguardo dell’avere la cittadinanza italiana. Mi mancherebbero due anni per ottenerla, ma sono davvero tanti visti i progetti sportivi, anche a livello europeo, a cui mi piacerebbe tantissimo partecipare“.

Progetti di riscatto: un libro e gli allenamenti

Dopo anni trascorsi in diverse comunità, Najla ha ottenuto una casa. “Vivo da sola in una casa comunale. Grazie allo stato italiano, Napolitano, Mauro Mauri sono riuscita a ottenere questa casa, che è a nome mio quindi è casa mia“.

Le difficoltà che Najla Aqder ha incontrato nella sua vita non l’hanno però portata a desistere. “Alleno le ragazze. Ho una crew che si chiama Flying Girls Milano che sono un gruppo di ragazze che vanno a correre insieme. Facciamo un sacco di progetti, perché sento di avere un sacco da trasmettere attraverso lo sport. L’atletica mi ha insegnato ad arrivare a un traguardo da sola, però sapendo che c’è il lavoro di tante persone“.

La sua propensione all’ascolto porta Najla a essere molto seguita da una generazione di giovani con storie simili alla sua. “Ho deciso di farmi Instagram e tutti i giorni mi scrivono un sacco di ragazze e di ragazzi che mi sentono vicina. Per questo ho preso la decisione di scrivere un libro: parlo tutti i giorni con ragazze che soffrono per le loro famiglie e non possono fare sport, non possono mettersi i pantaloncini corti. Anche in Italia succede tutto questo. Spero di riuscire a pubblicare entro marzo. Speriamo che possa aiutare i ragazzi giovani”.