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Coronavirus, ora che l'ozio è legge a noi italiani non piace più

Ozio Coronavirus

È la forma che ci ha fatto amare l’ozio. Finché ce lo davamo noi lo rincorrevamo, oggi che ce lo danno altri ci pare più una regola da violare che non come un’opportunità da cogliere.

Gli italiani e l’ozio hanno una lunga e collaudata amicizia e, a voler essere gentili, i due non si sono mai accapigliati più di tanto. Al di là dei regionalismi che vorrebbero il Bel Paese fratto in settori dove l’ozio diventa via via totem da venerare o aberrazione da combattere, stare in panciolle piace a tutti.

Però noi italiani all’ozio ci dobbiamo arrivare autarchici e sornioni, morbidi diciamo. Se il fancazzismo ce lo impone una regola, o peggio una legge, allora cambia tutto, allora fare qualcosa ad ogni costo diventa una questione di principio. Anche se la cambiale da pagare è morire sfiatando l’anima in un lettino di terapia intensiva impestati da Covid 19, anche se la deroga potrebbe partorire la condanna a morte per chi ti sta vicino o incrocia la tua strada. E cassare il tutto con il più laconico dei “siamo fatti così” sa di schiaffo in faccia a quella storia di civiltà e autodeterminazione che noi italiani, in tempi di quiete sociale, siamo sempre pronti a tirar fuori come un pagliaccetto ammonitore per chiunque volesse metterci in discussione.

Ma non abbiamo capito una cosa, neanche ora che la vite è stata stretta ancor più: che questi non sono i tempi gigioni della speculazione farlocca che evochiamo per far vedere, rigorosamente sui social, che le biblioteche le abbiamo inventate noi. Questi sono tempi dove la tragedia si è fatta polpa di ogni attimo, accucciata un bivio essenziale e scarno: o si sta a casa oppure si prende il virus, si scarrozza il virus, si attacca il virus e si innesca un meccanismo per cui qualcuno, con probabilità altissime, smette di vivere e scatena una tempesta di dolore e devastazione emotiva in qualcun altro e alla via così, in una mattanza frattale.

È la matematica della sofferenza che proprio ci sfugge, anche quando quei numeri ci dicono che il cancellino sta in mano a noi e che la lavagna è dove viviamo, facciamo la spesa, compriamo medicine e mesti andiamo al lavoro. Ma noi no: fino ad uno sputo di ore fa noi si scivolava nel sintetico della tuta e si andava per ciclabili a fare jogging ad ansimare fiati spezzati in gola ad altri coglioni come noi, noi si organizzava la bisbocciata condominiale per sputacchiare particole di birra tiepida sui nasi di chi con noi aveva promosso quel convivio scemo, noi ci si intruppava in auto a bighellonare intorno all’isolato in cerca di uno spinello con quella battuta cretina di quel film cretinissimo pronta a spiegare tutto mentre ridevamo come ebeti: “Di qualcosa si dovrà pur morire”. E si badi bene, l’uso dell’imperfetto è imperfettissimo ché c’è ancora chi si cimenta.

Si tratta di un esorcismo sociale che fa tanto figo e allontana l’immagine di tua madre che si strozza nel muco sotto una tendina di plastica perché tu volevi vivere quando buon senso e legge ti dicevano che dovevi sopravvivere. E la cosa grave è che il buon senso dovrebbe sempre giocare d’anticipo sulla regola e lasciarla indietro di due spanne, facendo in modo che la legge certifichi uno stato di fatto già acquisito per cultura sociale, non che determini una severa sterzata in abitudini altrimenti inviolabili e incasellate nella menata collutorio delle sacre libertà individuali.

Pare sfuggire a molti che per avere delle libertà individuali serve che ci siano individui vivi che ne possano godere. E tutto questo, anche a fare la tara all’etica, con uno Stato che tutto sommato ci aveva chiesto di stare in casa a poltrire, ad ammazzarci di streaming, supplì e social, ad ingrassare assieme a quegli affetti di cui sentenziavamo grevi di sentire tanto la mancanza quando la vita era normale, quando dirlo faceva sciallo ma non faceva danno, perché avevi sempre una scappatoia per non praticare quello di cui pontificavi serio, hai visto mai nonno rompa un po’ troppo i cosiddetti. È la forma che ci fotte, quella forma che ci impedisce di capire che la statistica è la legge più maledetta di tutte, perché dice che se hai la testa nel frigo e il culo nel forno dovresti stare mediamente bene, e invece hai solo le testa ghiacciata e il culo in fiamme.

È la forma che ci ha fatto amare l’ozio fin quando ce lo davamo noi ed oggi che ce lo danno altri ce lo fa vedere come una regola da violare e non come un’opportunità da cogliere. Perché quell’opportunità, a voler dare un peso alle parole oggi che moriamo di Covid, scavalca gagliarda l’immagine di noi che troneggiamo pigri sul divano mediamente certi che la conta finale delle bare non includerà noi o chi amiamo. Quell’opportunità, a voler correggere questo immane strabismo, si chiama vita.