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Il Pride della debuttante: la mia prima volta da drag queen

drag queen prima volta

Mi chiamo Marcella L’Homard Laveau, e a quanto pare sono una drag queen.

Diario intimo di una drag queen alla sua prima uscita

Mi chiamo Marcella L’Homard Laveau, e a quanto pare sono una drag queen.

Vi sembro sorpresa? Lo sono. Non certo perché ci si svegli una mattina con delle ciglia finte e ci si ritrovi trascinate inaspettatamente in abiti femminili. Posso garantirvi che nessun giovane maschietto è stato maltrattato per condurre questo esperimento. La decisione di travestirmi per partecipare alla parata del Milano Pride 2019 l’avevo presa da tempo, con la spinta e il supporto del mio compagno e di amicizie care, ma è quando ho ricevuto la telefonata dalla redazione di Notizie.it che, porca merda!, ho pensato, sono una drag queen! Questo perché non è l’abito a fare la regina, ma l’interazione con un pubblico. Una regina vive sul palco, tesoro. Andare in drag è attraversare generi e ruoli, sessualità e modelli culturali per fiondarsi dritte sulla faccia sbigottita e divertita del pubblico, producendo un evento. Di fatto, si compie un gesto artistico. E politico.

Gay Pride

Proprio questo editoriale, mentre io scrivo e mentre voi leggete, è la mia primissima esperienza come drag queen. Sì, sì, le posso sentire le regine domandarsi chi sia costei che spunta dal nulla. Sono appena nata, e sono orgogliosa di venire al mondo per il cinquantesimo anniversario dei moti di Stonewall. Lo slogan, bellissimo!, del Milano Pride 2019 è “la prima volta fu rivolta”, ed è cogliendolo come un’esortazione che mi sono convinta a onorare quella prima volta della nostra comunità con una mia prima volta, compiendo questo gesto di trasformazione pubblica.

In tempi di nuovi oscurantismi e di rinnovati moralismi, le minoranze hanno non solo il diritto ma anche il dovere di alzare la voce ancora più forte e ribellarsi a una narrazione dominante che, opprimendole, stringe sempre più il cerchio delle persone degne di una cittadinanza a pieno titolo. E se, anche grazie alla diffusione sempre maggiore di una rappresentazione della comunità queer nei canali mainstream, la popolazione-spettatrice, soprattutto giovane, sembra interiorizzare pacificamente la consapevolezza del diritto a esistere delle minoranze queer, pure questa interiorizzazione veicolata dai grandi media è sempre anche una forma di normalizzazione dell’alterità e di neutralizzazione della carica eversiva delle individualità: “gay sì, ma maschile”; “quel ragazzo è così femminile perché dentro si sente donna?”, ecc. E del resto, ancora moltissimo c’è da fare nella direzione della critica dei ruoli di genere, per esempio. Processi di discriminazione e gerarchizzazione possono avvenire in qualsiasi momento e nelle sfumature più difficilmente individuabili. Farsi strada nelle coscienze a colpi di tacco a spillo mi sembrava un ottimo modo per dare il mio contributo.

Rivoltarsi è necessario, e non per forza deve essere un gesto fisicamente violento: si può muovere violenza a una morale, a un’opinione, a un sistema di regole e aspettative. Proprio questo fa il popolo del Pride, invadendo le strade: rivolta il senso comune come un calzino. Proprio questo sento il desiderio di fare anche io.

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Sono pronta a posare per i curiosoni, sento già gli scatti delle macchine fotografiche, vedo i flash. Vi chiedete se io provi imbarazzo? Ancora non lo so. Ammetto di essere molto emozionata: divertita al pensiero degli sguardi di chi, pur non facendo parte della comunità, verrà e si divertirà; un po’ ansiosa per le occhiate di chi della comunità fa parte e non mi ha mai vista prima in questi panni. Ma costruire un’identità altra, un personaggio, serve proprio per dotarsi di un punto di appoggio su cui fare leva per esprimere tutta la propria forza potenziale. Sono una diva, ogni regina lo è: e il divismo non è solo la vanità di una drag queen, ne è il potere. Portarsi al centro dell’attenzione è portarsi al centro del palco, l’occasione migliore per fare evadere il pubblico attraverso la propria sfacciata non aderenza a nessun modello prestabilito. Farlo evadere dalla prigione, letteralmente!

Mi è stato chiesto di scrivere del mio punto di vista di drag queen alla sua prima esperienza al Pride. Mancando ancora qualche giorno all’evento, questa sollecitazione mi ha riportata piuttosto ai motivi che mi hanno spinta a diventare una drag queen, nonché al mio tentativo di definire cosa sia una drag queen, e cosa sia il Pride.

gay pride

A chi non piacciono gli elenchi? Gli elenchi sono semplicemente adorabili

Questo raccoglie i quattro motivi che mi hanno spinta a fare la drag queen. Ho scelto di titolare ciascuno con un verso, tradotto, da una canzone che amo, I wish I knew how it would feel to be free, di Nina Simone, che cantava con rabbia e fame di libertà.

1) Vorrei poter spezzare tutte le catene che mi stringono

Faccio drag perché, nonostante io mi senta una persona forte e consapevole, so che troverò sempre dentro di me un qualche blocco, vincolo o pregiudizio che mi farà esclamare hey!, aspetta un momento, che cazzo è questa roba? Trovare il coraggio di comunicare con il pubblico da un punto di vista diverso, esagerato e artificiale è un meraviglioso e privilegiato esercizio di liberazione personale.

2) Vorrei poter dire tutte le cose che dovrei dire

Dirle forte e chiaro, perché tutto il mondo possa sentire

Salire su un tacco dodici, per me che sono bassa, diversamente alta, è un’esperienza di puro empowerment. Ma non è solo questo. Il trucco. Il portamento. La maschera, che ti nasconde rendendoti immediatamente riconoscibile. Qualunque persona in drag sente un’incredibile potenza, quando si trasforma. Faccio drag perché mi permette di amplificare la mia voce. Statemi bene a sentire perché vi diro come stanno esattamente le cose, pane al pane, senza fare sconti, senza farci prendere in giro. Mama’s gonna kick your ass, man!

3) Rimuovere tutte le delimitazioni che ci tengono lontani

Di una cosa sono certa: niente è divisivo come il rispetto dei ruoli prestabiliti. Sono fatti proprio per dividere, creare gruppi e gerarchie, renderci astiosi e sospettosi, e dunque manovrabili. Faccio drag perché voglio buttare giù questi muretti e permetterci di vivere a pieno rapporti di solidarietà e autodeterminazione.

4) Vorrei tu potessi provare cosa vuol dire essere me così tu vedresti e concorderesti che ogni persona dovrebbe essere libera

Ok, questa mi sembra chiara a sufficienza.

Come dicevo, ho anche ripensato alla mia personalissima definizione di drag queen, e di Pride. Le condivido con voi, nella speranza che possano anche andare a costituire il vocabolario minimo di quanti, digiuni di cultura queer, si apprestano a vivere – magari con sguardo rinnovato – il periodo di festeggiamenti per il Pride.

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Di cosa parliamo quando parliamo di drag

Dall’inglese “to drag”, trascinare. Il pubblico, certamente, ma anche trascinarsi attraverso le identità. Fare drag è proprio questo trasferirsi in un’identità altra creata per interagire con il pubblico. Tradizionalmente e storicamente l’interazione è nella forma dell’intrattenimento musicale, canoro, in forma di danza o cabaret. Ma questo non esclude altre possibilità: ciò che conta è la trasformazione per il pubblico.

Non solo regine, però! Prima ho commesso delle leggerezze, dando per ovvie le caratteristiche specifiche della mia esperienza. Anche se il maschio gay che fa la drag queen detiene probabilmente la quota di maggioranza nell’immaginario collettivo, questa possibilità non esaurisce certamente l’universo drag. Fanno drag anche maschi eterosessuali, persone trasgender, donne che inscenano un personaggio femminile (bio queen), donne che inscenano un personaggio maschile (drag king). Non è né il punto di partenza né quello di approdo a determinare l’esperienza drag, ma piuttosto il tragitto di trascinamento da un’identità a un’altra. Talvolta si tratta di vestire i panni di un altro sesso, talvolta quelli del proprio sesso di appartenenza, come nel caso delle bio queen o delle drag trasgender. Questo perché ciò che contraddistingue il fare drag è la decostruzione dell’identità di genere, al fine di creare uno spettacolo che smuova nel pubblico le percezioni di genere che la cultura patriarcale e maschilista ci radica dentro come un automatismo. Dice la grande RuPaul: nasciamo nudi, tutto il resto è drag! Non è l’avere una patatina o un pistolino a renderci donne o uomini. Quello al massimo ci rende alla nascita biologicamente femmine o maschi. A fare la donna e l’uomo sono quell’insieme di pratiche, costumi e abitudini che ci rendono immediatamente riconoscibili un uomo da una donna, e che ci fanno avere un’idea molto chiara di come debba essere un uomo e come debba essere una donna. Ma dal momento che tutte queste regolette sono un’asfissiante rottura di palle, ecco che fare drag consente di metterle in discussione attraverso il corpo e lo spettacolo, creando nel pubblico una maggiore consapevolezza di sé e delle possibilità di autodefinirsi.

Ho particolarmente caro questo discorso, perché non è raro che all’interno della stessa comunità queer si commettano delle discriminazioni. Nei confronti di disabili, asessuali o sieropositivi, per fare due esempi in generale, o più nello specifico nei confronti delle donne e delle persone trans che fanno drag. Ogni qualvolta si crea uno spettacolo di sovversione e ridefinizione delle identità di genere prestabilite, lì si sta facendo uno spettacolo drag. E non ci sono cazzi! Talvolta sì, ma insomma non è questo il punto.

L’altro requisito fondamentale è, appunto, che ci sia un pubblico. E questo ci aiuta a sfatare un mito: non faccio la drag queen perché avrei voluto nascere donna, faccio la drag queen per creare spazi di libertà. E per divertire. Niente è liberatorio come una bella risata, tesoro.

Di cosa parliamo quando parliamo di Pride

La prima volta fu davvero rivolta. La vita per la comunità non è mai stata facile – non lo è nemmeno oggi, se diamo un’occhiata al numero di aggressioni ai danni di persone non cisgender eterosessuali, o alla diffusione di battute o intercalari discriminatori come vere e proprie frasi automatiche… per non parlare delle gigantesche lacune normative che ci separano da un’uguaglianza piena – ma all’epoca lo era ancora meno. Le incursioni della polizia nei locali frequentati dalla comunità erano la norma. La notte del 27 giugno 1969, però, le cose presero una piega differente. La ricostruzione dei primissimi momenti è un po’ confusa, ma è certo che qualcuno, forse la transessuale latina Sylvia Rivera, o la transessuale nera Marsha P. Johnson, o magari Stormé DeLarverie, lesbica, risposero con la violenza alla violenza della polizia. Ne nacque una guerriglia urbana che durò per giorni. L’eco della rivolta fece il giro del mondo, e diede un impulso vitale ai movimenti di liberazione. L’anno dopo venne organizzata una parata commemorativa, che fu di fatto il primo Pride della storia.

A cinquanta anni di distanza, eccoci ancora qua. Pride, orgoglio. Ma per cosa?

E’ l’orgoglio di non abbassare la testa, di rivendicare a schiena dritta il diritto a forgiare la propria identità secondo le proprie esigenze e aspirazioni, di amare secondo il proprio personale amore, di resistere con forza e coerenza a una cultura che violentemente non ci riconosce pari dignità.

Per questi motivi il Pride, seppure è della comunità, non è solo per noi. Il Pride è per tutt*. Perché la cultura dominante non risparmia nessuno, nessuno che non corrisponda pienamente al prototipo dell’individuo dominante maschio, bianco, eterosessuale. Chiunque al di fuori di questa categoria è “l’altro” e come tale necessita di sorveglianza, limitazione, censura. La morale dominante ci rende tutti schiavi, schiacciando il nostro potenziale, il diritto ad autodeterminarci, a essere felici. E, a pensarci bene, nemmeno i maschi bianchi eterosessuali – seppure privilegiati – corrispondono mai pienamente al prototipo dell’individuo dominante. Anche loro portano, magari nascostamente, la vergogna della loro parziale diversità.
Il Pride è la manifestazione intersezionale per eccellenza, ci ricorda che nessuno è escluso dall’esigenza di essere liberato e protetto, e che le tante lotte sono in realtà un’unica grande lotta di liberazione universale. Essere donne, froci, lelle, negri o poveracci sono solo alcune delle tante possibili declinazioni della stessa esperienza di discriminazione.

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Per questo il Pride deve essere sfacciato e scandaloso, perché fintanto che qualcuno continuerà a scandalizzarsi vorrà dire che la morale oppressiva non sarà stata ancora definitivamente superata, l’uguaglianza non ancora raggiunta. Perché invadendo le strade senza porci alcun problema di come dovremmo apparire, ma mostrandoci esclusivamente per come vogliamo essere, mostriamo come nessuna forma di repressione possa ridurre al silenzio la presenza fisica e irriducibile dei nostri corpi tutti diversi, delle nostre vite. Non facciamo pride bon ton per compiacere il perbenismo del potere, nella speranza che ci conceda le briciole. Facciamo il Pride per sconfessare quel potere.

Beh, io per ora avrei finito.

Sabato 29 giugno ci vediamo al Milano Pride 2019, e non te lo starò a ripetere due volte.