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Reddito di cittadinanza agli ex brigatisti: la Costituzione dice sì

Reddito di cittadinanza per gli ex brigatisti.

Polemica sul reddito di cittadinanza per gli ex brigatisti: seguendo i principi morali e etici della nostra Costituzione non può essere negata.

Divampa la polemica in ogni dibattito pubblico, sia esso affidato alla politica che alla società civile, sulla opportunità di concedere, ricorrendone i presupposti previsti dalla normativa vigente, il reddito di cittadinanza a coloro i quali si sono macchiati di reati commessi con finalità terroristiche o di avversione dell’ordine democratico (segnatamente ex brigatisti).

Ogni pena tende alla rieducazione sociale

Non è semplice dare una risposta a questo interrogativo se solo si pensi che la ratio del reddito di cittadinanza è la misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale. Temi questi che sono inevitabilmente collegati ai principi cardine su cui si regge l’impianto costituzionale della nostra Repubblica, con la conseguenza che la riflessione non può che essere inquadrata in chiave costituzionale e, non solo facendo riferimento ai principi fondamentali di uguaglianza e solidarietà, ma anche, e soprattutto, sotto l’angolazione della previsione del beneficio del reddito di cittadinanza.

Nell’ottica dell’art. 27 della Carta Costituzionale, con riferimento alla sanzione penale, prevede che ogni pena deve tendere alla rieducazione sociale del condannato (cioè deve avere una funzione rieducativa che si concretizza in pratica anche in un effettivo ravvedimento ed una effettiva collaborazione con lo Stato). È forse questo il tema centrale che pone chi riflette sul tema a camminare come sulla fune del funambolo, in un equilibrismo che da una parte riflette su norme etiche e morali mentre dall’altra si aggancia ai capisaldi della nostra democrazia.

La discussione poi è arricchita dalla previsione delle norme che regolano il reddito di cittadinanza che espressamente escludono dalla possibilità di poter accedere al beneficio del reddito di cittadinanza per coloro i quali, per qual che qui interessa e tralasciando le altre ipotesi pure prevista, sono stati condannati in via definitiva e nei dieci anni precedenti la richiesta, per i delitti previsti dagli articoli 270-bis, 280, 289-bis (che sono proprio quei reati commessi con finalità terroristiche o di eversione democratica).

Si potrebbe dire che tale previsione esclude in radice la tematica perché è lo stesso Legislatore che, nel contemperamento degli interessi contrapposti, ha scelto di far prevalere lo spirito solidaristico di contrasto alla povertà e di inclusione sociale, in chiave egalitaria, ogni qual volta non ci sia l’attualità del compimento di azioni con finalità eversive e quindi sia trascorso un tempo, ritenuto ragionevole, per poter concedere anche a coloro i quali hanno commesso atti terroristici il beneficio del reddito di cittadinanza.

La metafora del funambolo che cammina sulla fune

E questa è però una visione strettamente collegata alla normativa vigente ed alle scelte operate dal Parlamento, se solo si pensi che in sede di approvazione del provvedimento sul reddito di cittadinanza era stato presentato, ma poi bocciato, un emendamento che escludeva l’assegno per quanti si fossero macchiati di reati gravi come quello di terrorismo. Ma, come detto e riproponendo la metafora del funambolo che cammina sulla fune tesa cercando di mantenere il suo equilibrio, vi è anche la necessità di porre questo interrogativo in chiave etica e morale e cercare di poter dare una risposta a quanti rifiutano questa possibilità in considerazione del fatto che chi ha agito con finalità terroristiche ed eversive, a ben vedere, ha posto a base del proprio comportamento delittuoso il rifiuto del sistema democratico e quindi ha in qualche modo cercato di rinnegare lo Stato del quale egli è cittadino.

Può allora ammettersi tale possibilità? Io credo di si in considerazione proprio del respiro costituzionale di cui prima si è accennato. Non si tratta però a questo punto del ragionamento di riferirsi a norme giuridiche ed ancor più dettagliatamente a quelle di cui sopra si è detto, perché la nostra Costituzione, ancor prima di essere composta da norme scritte, porta in sé uno spirito fondato su principi etici fondamentali e, per meglio dire, naturali che precedono ogni parola scritta che si compone in una norma.

La Democrazia è tale se attuata

Cosa impone allora l’etica e la morale in questa chiave di opportunità che viene concessa anche a chi si è macchiato di reati gravissimi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico? Lo Stato deve far sentire la sua presenza e davanti a fatti delittuosi far sentire la forza della punizione che si concretizza nella comminatoria di una pena che deve essere severa se proporzionata a fatti gravi ma, nello stesso tempo, uno Stato democratico non può non tener conto che la Democrazia è tale se attua, nei confronti di chiunque, ed in concreto, quei dettami di solidarietà ed inclusione che devono prescindere dalle azioni commesse, da ogni colore politico, e da altre finalità se non quella di poter dimostrare che la Democrazia vive anche attraverso gesti di superamento di barriere preconcette, anche contro chi con i propri atti ha posto in essere un rifiuto dello stesso perché altrimenti si tornerebbe agli albori della Democrazia e quindi ad uno Stato punitivo in senso assoluto senza la speranza di una prospettiva di una possibile inclusione sociale.

E questo, in un momento storico come quello che stiamo attraversando, dove sempre più spesso il colore della pelle ovvero la condizione economico sociale diventano una discriminante in senso negativo, non credo che anche in chiave etica si può permettere ma nemmeno tollerare.