> > Coronavirus, l'infettivologo: "Il 20% dei pazienti positivo 40 giorni"

Coronavirus, l'infettivologo: "Il 20% dei pazienti positivo 40 giorni"

coronavirus-pazienti

L'infettivologo Massimo Andreoni ha affermato che circa il 20% dei pazienti affetti da coronavirus rimarrebbe positivo al tampone per circa 40 giorni.

Tra gli aspetti del coronavirus che attualmente interrogano gli scienziati di tutto il mondo c’è sicuramente anche quello della prolungata positività riscontrata in diversi pazienti; basti pensare al caso del calciatore della Juventus Paulo Dybala rimasto positivo un mese e mezzo ma anche a quello della modella Bianca Dobroiu, che ha ricevuto il secondo tampone negativo soltanto dopo 75 giorni. L’infettivologo Massimo Andreani ha cercato di spiegare questa particolare caratteristica del coronavirus, motivandola con la rapida adattabilità di quest’ultimo al nostro organismo.

Coronavirus, la prolungata positività dei pazienti

Andreani, primario di malattie infettive al policlinico dell’università di Roma Tor Vergata, ha illustrato ai microfoni del quotidiano La Repubblica la probabile casistica dei pazienti con prolungata positività: “Non abbiamo dati solidi, ma non credo di sbagliarmi se dico che il 20% dei pazienti resta positivo per 40 giorni”. Se il dato dovesse essere confermato, significherebbe circa un quinto dei pazienti totali affetti da coronavirus.

LEGGI ANCHE: Fiorentina, Caceres: “Ho avuto il coronavirus per 60 giorni”

Secondo l’infettivologo infatti, la causa di questa lunga durata della positività sarebbe da ricercare nell’adattabilità del virus al nostro organismo, ciò che nell’ambiente scientifico viene normalmente chiamato tropismo: “Il virus ha un buon tropismo per le cellule del nostro organismo. […] Le polmoniti virali in genere sono più rapide”.

Andreoni tuttavia specifica come al momento non sia ancora nota la reale capacità infettiva del virus rimasto così al lungo nel nostro corpo: “Non sappiamo se le tracce di virus che troviamo con il test siano solo frammenti non più vitali che aspettano solo di essere espulsi o se sono microrganismi vivi, replicanti e con capacità infettiva”, benché alcuni esperti, come il responsabile del reparto di malattie infettive all’ospedale Sacco di Milano Giuliano Rizzardini propendano per la seconda ipotesi: “Per questo i Centers for Disease Control americani autorizzano un ritorno al lavoro e alla vita normale dieci giorni dopo la fine dei sintomi, a prescindere dal tampone”.