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Sport nella Costituzione: resta valida la retorica del ‘quasi'

roberto mancini

L’ingresso dello sport nell’ordinamento di Stato fa riflettere su cosa realmente l’Italia offra ai suoi cittadini per la pratica dell’attività sportiva: un traguardo tra illusione e disincanto

Gli antichi Greci non si erano sbagliati. A distanza di quasi tremila anni, lo sport si aggiunge ai contrassegni salienti sulla carta d’identità dello Stivale. Data storica quella del 20 settembre 2023, in cui «la Repubblica (italiana, ndr) riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme». Ricorda il 776 a.C., anno della prima Olimpiade, in cui la Grecia diede inizio a una delle tradizioni ultra millenarie più importanti di tutta la cultura classica. Tra le civiltà di allora, l’Ellade fu la prima ad avere l’intuizione; oggi, l’Italia è (quasi) l’ultima. Poco male, questo: come si dice, ‘meglio tardi che mai’.

Sigillate le carte, si passi pure alla pratica. Partiamo da quello che c’è: (quasi) nulla. Palestre, impianti sportivi e insegnanti qualificati si contano troppo velocemente per poter soddisfare l’intero Paese e, soprattutto nel centrosud, più della metà delle strutture sportive non è più giovane degli anni Ottanta. Prima verità: per dare lo sport a una nazione non basta scriverlo nella sua Costituzione, serve finanziarlo. In Francia, sul podio europeo per numero di ore scolastiche dedicate all’educazione motoria, lo sport viene pagato dallo Stato: i petit garçon praticano atletica, basket, ginnastica, nuoto, tennis ecc. in modo gratuito e con attrezzature sempre aggiornate. In Italia per fare lo stesso bisogna sborsare almeno seicento euro all’anno (in quell’«almeno» c’è ben altra cifra). Per ragazzo, quindi per figlio. Quante famiglie possono permetterselo? (Quasi) nessuna, purtroppo. E si vede: l’Italia è tra le prime nazioni in Europa per numero di bambini sedentari e obesi; a ciò si aggiunge una percentuale preoccupante, il 64%, di ragazzi che soffrono di mal di schiena già dalla prima età adolescenziale.

L’ultima spiaggia diventano così le due ore di educazione fisica a scuola. Professore laureato in scienze motorie con una laurea dagli esami a crocette – e non è mica colpa sua –, ecco che spesso finisce per mettere i voti interrogando gli alunni su lunghezza e larghezza del campo da pallavolo piuttosto che facendo provare loro un bagher o una schiacciata. Qualcuno direbbe ‘ma che ci frega’: abbiamo vinto gli europei di volley femminile e pure quelli di calcio, nello ‘sport che conta’ non passiamo di certo inosservati. Il problema resta l’illusione che si cela dietro queste medaglie, mentre brillano sull’azzurro delle maglie della nazionale con l’inno di Mameli in sottofondo. Tutto bello, per davvero. Ma cos’è quel momento per il resto dell’Italia? Un sogno, forse. Più probabilmente, un miraggio. Ciò non equivale a dire che tutti meriterebbero di essere sul podio con un oro o un argento al collo, si tratta piuttosto di un monito per un sistema sportivo che si sbilancia sempre più dalla parte di chi ha e non di chi può. La crociata dello sport contro la retorica del ‘quasi’ è appena iniziata. L’iscrizione nella Costituzione è solo il titolo del libro dei diritti: l’indice è scritto, manca (tutto) il resto.