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Uccidete pure la cultura con le continue chiusure, ma almeno rispettatela

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Evitateci le cerimonie e la retorica sulla cultura come bene primario, almeno non sentitevi assolti per avere lasciato aperte le librerie.

Dai, non prendiamoci in giro, non facciamo i falsi cortesi, diciamocelo in faccia: del teatro, dello spettacolo dal vivo, ancora più in generale della cultura perfino interessa poco, pochissimo, quasi niente. Per carità, la cultura sta bene su tutto e un po’ di cultura è l’ideale per insaporire, per vezzeggiare, è come la sciarpa che ti salva dal regalo scordato a Natale, è morbida da masticare, sicura da servire a tavola, è conveniente e garantisce il risultato. Però è secondaria. Lasciate perdere i comunicati stampa, lasciate perdere i proclami della politica (tutta) e non badate agli eventi speciali (quello è mercato): la cultura viene “dopo” come quel relax che ti prometti quando hai finito tutto il resto.

Il 27 marzo era il giorno promesso per la riapertura promessa dal ministro Franceschini che lo scorso 26 febbraio annunciava le luci in sala dei cinema, dei teatri e delle sale da concerto. Il ministro aveva scelto la giornata mondiale del teatro perché si sa, quando si parla di cultura, non c’è niente di meglio che attaccarci un anniversario, una celebrazione, un cosa qualsiasi che possa fare pendant.

Che sarebbe stato impossibile pensare a una reale ripartenza già in quei giorni lo dicevano gli scienziati, bastava leggere le curve dei contagi e interpretare i dati a disposizione. Le promesse sono carote in questi tempi bui. Ma con le carote non ci monti uno spettacolo e non riesce a strappare nemmeno un applauso. Chissà che senso avesse fissare una data che sarebbe stata tradita, chissà se davvero ci si illude che ancora bastino le parole.

La giornata internazionale del teatro è stata un funerale, una veglia che dura da un anno di fianco a un corpo steso che nessuno si è preso nemmeno la briga di visitare: un anno di interventi sporadici, nessuno intervento strutturale, nessuna visione per il futuro. Per sapere come sta il mondo dello spettacolo in Italia basterebbe mettere un microfono sotto al naso a quei professionisti che hanno dovuto vendere le proprie attrezzature per sopravvivere. Quel tavolo permanente che da 6 mesi esiste con il ministro Franceschini non ha prodotto niente, lo ripetono inascoltate le associazioni di categoria sedute a quel tavolo: una passerella, la solita.

Le richieste sono chiare da mesi: un fondo per sostenere i lavoratori e le lavoratrici (come avviene per altre attività), un sostegno economico per le imprese della filiera dello spettacolo dal vivo (come avviene per le altre attività), l’impostazione di modelli graduali di ripartenza del settore (non vale lo spot “riapriamo tutto”, no, non vale, in giro per il mondo si sono stabiliti protocolli seri e precisi e si sono già persi i sipari) e magari trovare anche la forza intelligente per riformare un settore che languisce immobile da anni.

Ma bisognerebbe avere il coraggio di dirselo in faccia: la cultura e lo spettacolo in questo Paese sono una parentesi ludica oppure un luogo di crescita collettiva? Il punto è tutto qui. La politica è molto più banale di quello che vuole sembrare: le priorità sono stabilite dai soldi messi in bilancio, non dai proclami. Se qualcuno pensa (ed è libero di pensarlo, sia chiaro) che il mondo dello spettacolo sia un semplice perimetro di altri codici Ateco (quando esistono) senza nessuna valenza sociale allora basterebbe avere il coraggio di dirlo, senza infingimenti. Ma almeno evitateci le cerimonie e la retorica sulla cultura come bene primario, almeno non sentitevi assolti per avere lasciato aperte le librerie. La cultura è una cosa seria: uccidetela ma almeno rispettatela.