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Il vero problema di Spotify

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E' successo perché, da un giorno all'altro, Spotify, impegnata nella quotazione in borsa, ha deciso di chiudere tutti i profili crackati

Cadere dal pero. Un’espressione piuttosto vecchia per indicare chi si trovi a vivere una condizione di estremo spiazzamento, di sorpresa improvvisa, qualcosa, appunto, che ti fa cadere dal pero. Sul perché sia un pero l’albero in oggetto dal quale cadere non ho notizie di prima mano. Sul perché, nel 2018, si utilizzi una immagine così poco vicina al nostro vissuto pure. Sul perché io, iniziando un articolo che parla di streaming e di legalità abbia deciso di utilizzare questa immagine, invece, ho le idee piuttosto chiare, volevo mettervi di fronte a qualcosa di fuori dal tempo. Come il mio pensiero, probabilmente. Perché, lo sapete tutti, è successo che di colpo Spotify è salito agli onori delle cronache. E è successo perché, da un giorno all’altro, Spotify, impegnata nella quotazione in borsa, ha deciso di chiudere tutti i profili crackati, cioè di quanti utilizzavano la versione Premium senza aver pagato i dieci euro di abbonamento mensile. Un po’ come ai tempi successe per Sky, intorno alla quale gravitava tutto un mondo di tessere tarocche.

Apriti cielo (altra espressione non proprio da terzo millennio).

Sui social scatta la rivolta. Tutti a urlare allo scandalo, perché di colpo una cosa illegale è diventata impossibile. Tutti a dire che chiedere di pagare per un servizio del genere è eticamente scorretto, perché la gente non arriva alla fine del mese, figuriamoci se si può permettere un abbonamento per ascoltare musica in streaming. E via ai botta e risposta, da una parte loro, i protestatari, dall’altra quelli che li attaccano, perché la musica non è il pane, e se uno non può permettersi un abbonamento Premium che si accontenti di quello gratuito, o ascolti la musica su youtube o dove cazzo gli pare. E tutti a dire che quelli che protestano contro Spotify sono quelli che poi inneggiano alla politica onesta, indicando quindi nei grillini l’oggetto del pubblico ludibrio, un po’ come da moda del momento.

Non mancano, ovviamente, i complottisti. E via di “se è gratis la merce siamo noi”.

Mancano giusto le scie chimiche.

A me, personalmente, nato nel Novecento, uomo di mezza età, ascoltare la musica in streaming fa letteralmente cagare. Mi chiedono di farlo, per lavoro, e se non riesco a trovare la stessa musica in download, al limite anche in download illegale, se magari si tratta di un album non ancora uscito ufficialmente, download che mi fa ugualmente cagare, ma un po’ meno, lo faccio, cosciente che sia un ascolta di musica davvero di merda.

Perché lo streaming prevede una compressione della musica innaturale (tutta la musica incisa, del resto, tende all’innaturale). Niente bassi, acuti che distorcono, frequenze tirate verso l’alto, compresse appunto, niente dinamica. Queste le regole base, quelle intorno alle quali si compone la musica destinata allo streaming, oggi, quelle che rendono l’ascolto di musica non pensata per lo streaming uno scempio.

Spotify

Non ho nulla a favore di Spotify, quindi, né degli altri canali di streaming, ma qui parliamo di Spotify. Non ho nulla a loro favore e di conseguenza non è mio interesse difendere questa azienda. A prescindere dal fatto, che mi sembrerebbe pure rilevante, che gli artisti dallo streaming non ricavano più che quattro becche. Mi repelle l’idea dell’ascolto in streaming, fosse per me Spotify potrebbe serenamente chiudere. Nessuno ne piangerebbe. Ma così non è e lo accetto, esattamente come accetto l’idea di vivere in democrazia o l’esistenza di Fedez.

Abbie Hoffman aveva intitolato un suo libro “Rubate questo libro”, perché sosteneva che la cultura non dovrebbe essere pagata, o quantomeno la controcultura. Come l’arte. Potrei anche essere d’accordo. A riguardo c’è una vera e propria letteraura, si pensi al più recente CopyLeft. Il punto è però che in quel caso si parlava di “rubare” arte o cultura, non musica di merda.

Quindi fanculo Spotify.

E pure chi lo cracka.
Quello che però mi chiedo è: come è possibile che fino a oggi Spotify non abbia fatto niente contro i profili crackati?

Nel senso, non ne erano a conoscenza?
Perché in caso erano gli unici a non saperlo. Come direbbe Salmo, un cornuto non guarda mai nell’armadio.

Chiunque abbia una frequentazione anche minima con gli adolescenti sa che tutti o quasi utilizzano questi sistemi crackati o illegali per ascoltare musica. Al punto che anche oggi, giuro, ho sentito di un nuovo modo per crackare Spotify. Se invece la cosa era nota e non è stato fatto nulla per intervenire, perché magari non era così importante, visto che in tutti i casi Spotify è abbondantemente in perdita da sempre, la domanda che mi pongo, e che più semplicemente pongo al Tavecchio della discografia italiana, Enzo Mazza, CEO della FIMI, è: perché si è deciso di rivedere le classifiche e, di conseguenza, le certificazioni, mettendo a fianco della vendita del fisico e del download solo i profili Premium dei canali di streaming? E perché si è anche detto che detti profili erano in aumento?

Nel senso, chiedere a chi non paga di contribuire all’andamento delle classifiche e delle certificazioni era proprio quello che con il nuovo regolamento si voleva impedire. Lasciando che il tutto continuasse per due mesi si è permesso qualcosa di bizzarro, se non di truffaldino. Classifiche falsate. Certificazioni farlocche.

Poi, si dirà, la percentuale dei profili crackati è minima, allora perché dare così risalto alla loro chiusura e perché sui social sembra che nessuno abbia mai sganciato un centesimo per ascoltare musica in streaming?

La sensazione, neanche troppo vaga, è che chiedere di pagare qualcosa che si è fatto passare per gratuito sia un’impresa epica, degna di un eroe mitologico.

Far pagare, poi, un servizio così di merda, addirittura qualcosa di fantascientifico, tanto più che si paga non per acquistare un vinile, un cd o un file in download, ma per poterlo ascoltare in qualcosa che sembra un comodato d’uso.

Si ha un bel daffare a dire che la creatività va pagata, quando poi chi usa siti illegali è il primo a non riconoscere non solo il diritto d’autore, ma neanche il peso specifico di un mercato come quello musicale (il discorso, del resto, vale anche per il cinema).
Io continuo a ascoltare musica come si deve, rifiutandomi di prendere in considerazione un falso progresso come quello dello streaming e considerando buona parte della musica di riferimento di questo metodo al pari del metodo stesso: merda.
E continuo a chiedermi perché la discografia permetta a uno come Mazza di presiedere la FIMI.
Ora mi aspetto, inguaribile romantico che non sono altro, che vengano dichiarati quanti sono i titolari di profili Premium reali e quanti sono stati i profili Premium crackati chiusi, così da rivedere le classifiche degli ultimi due mesi e, magari, anche le certificazioni assegnate.

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Se il futuro che ci attende è solo questo, lo dichiaro pubblicamente, andrò a comprarmi su Amazon (eh sì, proprio su Amazon) un clavicembalo, e le canzoni me le suonerò dal vivo in casa, come succedeva prima che la musica venisse incisa. Sarà anche quella musica di merda, ma almeno i miei vicini avranno modo di capire che vita di inferno ho dovuto fare io con tutte quelle ore lezioni di violino che mi sono dovuto sorbire, maledette pareti sottili.