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Perché non mi piace niente della musica italiana

Pausini

Se dite che ciò che avete mangiato faceva schifo il problema sta nel vostro essere incontentabili o nella qualità di quel che vi è arrivato in tavola?

Prologo.

Quando lavoravo in Mondadori, anni fa, coi colleghi dell’area libri, al quarto piano del palazzo disegnato da Oscar Niemeyer, si scherzava parecchio su chi lavorava al terzo piano, in amministrazione. Noi si andava al lavoro vestiti casual, qualcuno anche più che casual, mentre lì, a terzo piano, era in vigore il completo grigio con camicia celeste. Vestivano tutti così. Al punto che quando l’ascensore si fermava al terzo piano noi, gettandoci lo sguardo dicevamo sempre: “Sembra di essere nel mondo di Matrix, abitato da tanti Mr Smith”.

Ecco, provate a pensare a un ufficio come il terzo piano della Mondadori. O provate a pensare a un qualsiasi ufficio in campo amministrativo. Ci sono una decina di persone, tutte vestite uguali, giacca e pantaloni grigi, camicia celeste chiara, niente cravatta. Ora concentratevi su un uomo vestito in maniera assolutamente normale. L’uomo, come i suoi colleghi, indossa un completo di non eccelsa fattura. Giacca e pantaloni grigi, camicia celeste chiaro, niente cravatta. Niente di particolare, quindi. Anche il viso non mostra segni evidenti, qualcosa che rimanga impressa nella memoria. Lineamenti regolari, niente barba né baffi, capelli lisci, corti, senza la riga da una parte. Come tutti gli altri.

Ecco, pensate a questo uomo, di mezza età, in mezzo a altri uomini di mezza età vestiti come lui. E ora immaginatevi che nella sua camicia, proprio al centro della camicia, all’altezza dello sterno, ci sia una macchia di sangue fresco, rosso acceso. Una macchia evidente, abbastanza grande da finire sotto la giacca. Rosso acceso, ripeto, che spicchi sul celeste della camicia.

Ora, siamo sempre sul piano teorico, vi chiedo: cosa mai vi resterebbe impresso, guardando questo ufficio e chi ci si trova?

Secondo prologo.

Entrate in un ristorante. Un ristorante nel quale non siete mai stati. Leggete il menu, e a prima vista non c’è niente che riteniate particolarmente invitante. Ma avete fame, e volete assolutamente mangiare, qui e adesso. Allora ordinate, un po’ a caso, un primo e un secondo, che stiano bene insieme, almeno sulla carta. Arrivano i piatti, e già alla vista sono sgradevoli. Al gusto anche peggio, una vera fetecchia. Li rimandate indietro. La cameriera ci tiene a farvi sapere che dalla cucina si scusano, e che non vi faranno pagare quei pasti, anzi, che siete ospiti del ristorante. Accettate le scuse, anche perché in giro non ci sono altri ristoranti, e avete davvero fame. Ordinate un altro prima e un altro secondo. Stesso risultato della volta precedente. Forse anche peggio. Sicuramente peggio va la terza volta. La quarta è una specie di catastrofe. Nell’insieme il cibo che vi è stato offerto è di pessima qualità, cucinato malissimo e presentato peggio. Spesso avete anche l’impressione che quello che vi è stato servito fossero avanzi di piatti già serviti a altri, neanche in giornata. Qualcosa, supponete, era pure scaduto.

Ora, sempre di teoria si parla, vi chiedo: se andrete in giro a dire che tutto quello che avete mangiato faceva schifo il problema sta nel vostro essere incontentabili o nella scarsissima qualità di quel che vi è arrivato in tavola?

Svolgimento.

Potrei anche fermarmi qui, dando vita all’articolo il cui corpo centrale entrerebbe nel Guiness dei primati come il più breve della storia del giornalismo. Ma in realtà l’argomento mi risulta interessante, quindi provo a andare oltre quanto già espresso nei due prologhi.

Scrivo di musica quasi tutti i giorni, da circa venti anni. A volte ne scrivo anche più volte al giorno. Scrivo molto spesso di quello che mi piace, perché ho avuto il privilegio di andare a fare un mestiere per cui molta musica mi arriva addirittura prima che venga pubblicata, in qualche triste caso anche quando poi non verrà pubblicata, e questo mi ha permesso e mi permette di andare a fare in qualche modo da mentore di artisti che ancora non si sono affacciati al mondo, o di accompagnarli nei primi anni della loro carriera, come fossi la maestra di un asilo nido cui il sistema musicale ha affidato il benessere di progetti in partenza piccini, ma destinati a diventare maturi.

Siccome, come detto, questo avviene da vent’anni e più, e siccome alcuni di quei progetti piccini sono in effetti diventati adulti, succede anche che artisti già affermati mi rendano partecipe dei loro lavori in fieri, anche artisti che non ho incrociato all’inizio della loro carriera, perché più grandi di me o perché, magari, non ho colto inizialmente la loro arte. Insomma, passo le giornate nella fortunata condizione di condividere l’arte con gli artisti, a volte un po’ prima degli altri, comunque mai troppo dopo. E di questo scrivo, quotidianamente.

Sono un grande appassionato di cantautorato femminile, per dire, e in qualche modo per questo ambito sono diventato una sorta di punto di riferimento nella critica musicale. Ma non è di questo che si sta parlando, il titolo serve pure a qualcosa. Perché oltre a scrivere di questo succede che, non altrettanto spesso, ma abbastanza di frequente, io mi debba occupare anche di musica che in un mondo non dico giusto, ma anche solo decente, non dovrei dover ascoltare per lavoro. Musica davvero scadente, per la scrittura, per la composizione, per la produzione, per l’interpretazione. A volte per tutte queste quattro ragioni contemporaneamente. Quasi sempre per tutte queste quattro ragioni contemporaneamente.

Esce un determinato album di un cantante, non fatemi usare la parola artista a sproposito, piuttosto affermato, o di moda, o anche semplicemente pompato dalla discografia per uno dei tanti motivi sbagliati, e mi viene chiesto di scriverne. A volte neanche serve che mi venga chiesto, perché trovandomi quasi sempre a scrivere per riviste o quotidiani in veste di critico musicale è normale che io ne scriva, perché posso giocare la carta di quello che, una tantum, decide proprio di non scrivere del cantante X, dando a mio modo un giudizio tranchant a riguardo proprio col mio non parlarne, ma non posso applicare sempre questa regola, un po’ per non depotenziarla, un po’ perché, e torniamo al primo prologo, lo so bene anche io che il sangue si nota molto di più del candore. A volte, quindi, ne scrivo e di solito il risultato è tipo la scena di Shining in cui il corridoio dell’Overlock Hotel è inondato da uno trunami rosso sangue. Non tendo a fare prigionieri, un po’ per stile, un po’ perché, e presto vi spiegherò perché, non è possibile fare prigionieri.

Potrei portarvi degli esempi, ma non credo sia poi così importante, una stroncatura è una stroncatura. Ecco, vabbeh, diciamo che alcune stroncature sono più stroncature di altre, ma la rete sta lì per quello, se uno è curioso cerca e trova.
A ogni stroncatura, e ripeto la percentuale rispetto ai pezzi positivi è piuttosto bassa, succede il finimondo. Per motivi che mi sono ben evidenti, non faccio mica quello che si meraviglia. Non faccio neanche però quello che ci gioca, e qui arriviamo al nocciolo della questione.

Io stronco il disco di qualcuno, prendiamo un nome a caso Laura Pausini. Lo faccio seguendo il mio stile, quindi dando una determinata forma alle mie analisi. Il tempo di pubblicarlo e succede l’inferno. I fan si scatenano, coprendomi di insulti in tutti i social. A volte mi coprono di insulti anche gli artisti, nel caso della Pausini è successo più di una volta. Altre volte mi attaccano i discografici, gli uffici stampa, i parenti. Insomma, il delirio. Tutti a cercare di colpire il mio amor proprio, chi parlando di rosicamenti vari (come se io fossi una cantante), chi tirando il ballo una vita privata mia inesistente, e mentre lo scrivo mia moglie sta postando le foto dei nostri quattro figli per farmi gli auguri per la Festa del Papà, chi semplicemente dicendo che non ho i titoli per farlo. Ma qualsiasi sia il tipo di attacco cui vengo sottoposto, e vi giuro che ne ho viste davvero tante che voi umani non potete immaginare, non manca mai qualcuno, spesso più di qualcuno, che dice qualcosa che suona come: “Esiste qualcosa che ti piace?”. Sottintendendo, con questo, che mi fa schifo tutto, e che quindi il mio giudizio negativo altro non sia che una semplice conseguenza di un gusto troppo bizzarro, o di una malformazione congenita per cui non riesco a provare piacere, tipo la protagonista di Gola Profonda.

Laura Pausini

Esiste qualcosa che ti piace?
Risposta contenuta nella domanda: no.

In effetti è così.

Non c’è niente che mi piace.

Di più, non c’è niente che trovi decente, accettabile, non dico buono ma di anche vagamente vicino alla sufficienza. Mi fa tutto davvero schifo. Ascolto e mi viene voglia di estirparmi i timpani da solo con un ferro da lana, un po’ come si faceva in passato con gli aborti. Mi viene voglia di infilare la testa dentro un sacchetto, come Spud in Trainspotting 2, e prima di esalare l’ultimo respiro mi viene da vomitare, potete ben immaginare la scena.

Provo solo disprezzo per quello che altri considerano arte, e al solo pensiero che altri trovino quello che io disprezzo arte provo anche disprezzo per questi ultimi.
Sto ovviamente praticando un paradosso, alla Jonathan Swift. Una provocazione, direbbe qualcuno, cercando di relegarmi nel ruolo di polemista, come se questo potesse svilire il mio ruolo di critico musicale.

Il fatto è che le frasi feroci che avete letto qui sopra non sono rivolte nei confronti della musica tutta, ma della musica che oggi passa il convento.

Ecco, il disprezzo parte proprio nei confronti del convento, per poi toccare la musica e chi la musica la pratica.

Trovo che quello che il sistema musicale italiano ha fatto alla musica sia abominevole. Nel corso di una trentina d’anni, forse un po’ meno, hanno preso un terreno variegato, dove chiaramente c’era sia il bosco fitto che il prato all’inglese, e non poteva mancare la roccia incapace di dare frutti o fiori, e lo hanno inaridito, reso deserto. Da una parte non capendo che l’arrivo di internet e della musica liquida avrebbe cambiato per sempre il mercato, dall’altro cercando, una volta che i buoi erano scappati dalla stalla, di mettere un recinto che non serviva a altro che a fare da promemoria della loro stupidità, ma soprattutto aspettando che fosse sempre qualcun altro a prendere le decisioni importanti, quelle che un tempo avrebbero determinato generi e anche mode.

Le radio decidono di passare solo un certo tipo di canzoni, con un determinato BPM, un minutaggio prestabilito, addirittura stabilendo quali brani sarebbero diventati singoli (quindi non dando più modo a un album di essere tale)? Bene, i dischi hanno iniziato ad avere singoli che facessero seguito a questi paletti, BPM, minutaggio, sound. Il download ha appiattito il suono delle canzoni, anche quelle non pensate per essere scaricate? Bene, le canzoni devono tutte suonare schiacciate, come il download prevede. Lo streaming toglie i bassi alle canzoni, comprime le frequenze, distorce gli alti? Bene, si proceda in questa maniera, e chi se ne frega dei dettagli, delle sfumature, della dinamica.

Potrei andare avanti per ore, non credo sia il caso. Anche perché siamo in Italia, e oltre tutto questo c’è pure che abbiamo deciso, non so esattamente come e quando, di non dare più nulla di nuovo alla musica. Cioè, un tempo erano gli altri che dovevano scegliere generi che dovessero fare i conti con l’incapacità degli altri popoli di fare i conti con la melodia, cultura appartenente al nostro DNA, e via col rock’n’roll, tutto basato sul ritmo, via con il rap. Oggi siamo noi a rincorrere quegli stessi generi nati occupando le caselle che non fossero già coperte da noi, con il triste risultato di essere ultimi in ordine di arrivo, oltre che di qualità.

Come potrebbero mai piacermi canzoni che partono da imitazioni di brani che all’estero hanno spopolato anni fa? E perché dovrebbero piacermi canzoni del genere?

Le ascolto e perdo fiducia nel domani. Lo scrivo e aspetto che arrivi il primo coglione a chiedermi se c’è almeno qualcosa che mi piaccia.

Poi, fortunatamente, arriva una Carlot-ta a mandarmi il suo album nuovo, Murmure. O arriva Beatrice Antolini col suo L’AB. O Maria Antonietta col suo Deluderti. Li ascolto e torno a pensare che domani sarà un giorno migliore, non solo un altro giorno come diceva Rossella O’Hara.

Epilogo triste

Anche di questi dischi che mi piacciono poi scrivo. Dico cose bellissime, enfatiche, ma una camicia pulita in mezzo ad altre camice pulite si nota di meno di una camicia insanguinata. Lo so bene. E allora tenetevi il sangue.