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Infezioni ospedaliere, l'Italia è il paese più a rischio: prima del Coronavirus e nella fase 2

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Gli studi rivelano che l'Italia era il primo paese per infezioni ospedaliere, anche prima del Coronavirus. E, secondo gli esperti, anche nella Fase 2.

Se n’è parlato pochissimo, ma l’Italia era il paese europeo con il rischio più alto di contrarre infezioni ospedaliere già prima della strage immane causata dal Covid-19. Per anni si è parlato di eccellenza ospedaliera, di strutture sanitarie all’avanguardia ed è sicuramente vero se confrontato soprattutto con quello che avviene in giro per il mondo. Ma carenze e lacune, anche non di poco conto, c’erano e ci sono.

I dati sulle infezioni ospedaliere

Il Centro europeo per le malattie infettive (Ecdc) segnalava l’Italia in cima alla classifica poco lusinghiera dei paesi europei con la probabilità più alta di beccarsi un’infezione durante un ricovero ospedaliero, al 6%. La media dei paesi dell’Ue è del 3,7%.

Non solo. In Europa oltre 4 milioni di persone all’anno vengono colpite da infezioni batteriche ospedaliere. L’Oms segnala da diversi anni l’Italia come paese a rischio per lo sviluppo e la circolazione di resistenze antimicrobiche, cioè le infezioni che non rispondono ai trattamenti antibiotici standard, dietro soltanto a Turchia e Grecia.

Nel nostro paese, dal 7 al 10% dei pazienti va incontro a un’infezione batterica multiresistente. Le infezioni più comuni sono polmonite (24%) e infezioni del tratto urinario (21%). Insomma, una cattiva diffusione delle buone prassi per la sicurezza e standard di prevenzione delle infezioni non all’altezza.

È in questo quadro che la furia contagiosa del virus arriva negli ospedali, soprattutto in Lombardia, e miete le sue
vittime. È sempre in questo scenario che il contagio coglie quasi ventimila operatori sanitari a oggi e ne ammazza 175. Il 52% degli infetti sono infermieri, il 25% medici, il 23% altri operatori sanitari. La retorica della guerra e degli eroi che sentiamo da settimane si scioglie nuda e cruda davanti a numeri di vittime in carne e ossa, con le loro storie professionali, le loro esistenze personali, i loro affetti. Ma ammesso che questa sia una guerra, non esiste nessuna guerra che meriti vittime inutili e alcune di queste si potevano evitare.

L’allarme degli esperti a Notizie.it

Com’è successo e quali sono le cause? Ranieri Guerra, direttore vicario dell’Oms e componente del comitato tecnico scientifico, a Notizie.it dice che «in che modo la situazione pre-esistente sia collegata alla diffusione nosocomiale è materia di ricerca e di valutazione alla conclusione della fase emergenziale, in cui la priorità era salvare vite. Gli standard di prevenzione delle infezioni devono in ogni caso, a prescindere dall’emergenza Covid, essere elevati e cogenti, con procedure vincolanti. Da questa epidemia dovrà emergere una revisione sistematica che permetta di elaborare e realizzare un nuovo standard di sicurezza. È un tema all’attenzione del ministro ma dovrà esserlo anche delle amministrazioni regionali, l’erogazione delle cure e l’assistenza passano da lì. Un’ulteriore criticità è rappresentata dalla copertura vaccinale degli operatori sanitari. L’Italia, purtroppo, nonostante la prima norma in Europa sull’obbligo vaccinale, aveva ancora un tasso di vaccinazioni tra gli operatori troppo basso per garantire protezione».

Bassa percentuale di vaccinati, scarsa formazione delle misure di sicurezza a partire da quelle igieniche, mancata conoscenza dei meccanismi di contagio. «Le infezioni ospedaliere sono un problema di sanità pubblica. – dichiara a Notizie.it Filippo Anelli, presidente dell’Ordine dei medici Alcune di queste infezioni si diffondono in soggetti particolarmente sensibili, ma il caso del Covid-19 è diverso. Il contenimento della sua diffusione si fonda sull’isolamento dei casi positivi e dei contatti. Per evitare il disastro della Lombardia, bisogna controllare sistematicamente pazienti e operatori negli ospedali ma anche sul territorio».

I medici denunciano le aziende ospedaliere

Tracciamento dei contatti, tamponi, gli ormai famigerati DPI, dispositivi di protezione individuali: tutto quello che è mancato nella prima fase. Per questo i rappresentanti sindacali del personale ospedaliero hanno presentato esposto ai Nas e in dieci
procure della repubblica contro le amministrazioni sanitarie: accusano le aziende di non avere tutelato i medici e gli infermieri.

Del resto, da almeno dieci anni, le amministrazioni sanitarie avrebbero dovuto attuare le disposizioni previste dal piano contro le pandemie. La prima disposizione raccomandava di fare scorta di protezioni: mascherine, tute, guanti. Il piano non è mai stato attuato, al contrario della Germania che si è difesa piuttosto bene evitando il contagio negli ospedali, mentre in Italia sappiamo tutti cos’è successo: gli ospedali diventati focolai del contagio.

«Una pandemia era in effetti attesa – dice Anelli – e le Regioni avevano piani per prevenirla e contrastarla, piani che però non sono stati attuati, nemmeno dopo la lezione di Wuhan e dopo la proclamazione, il 31 gennaio, dello stato di emergenza da parte del Governo”. Il pericolo che nella prima fase è diventato un incubo reale è che il personale infetto, dai primari agli infermieri, faccia da super-spargitore del virus, tra i pazienti sani e tra i colleghi ospedalieri».

Per questo il personale che si ammala di Covid può tornare al lavoro solo dopo due tamponi negativi. Ma a Lodi cinque vengono fatti rientrare dopo un solo tampone, a Bergamo nessun tampone per gli ospedalieri infetti e nessun tampone per i medici asintomatici portatori di virus, solo a Padova erano previsti 4 tamponi in 2 settimane. Padova è in assoluto l’ospedale che ha effettuato più tamponi durante la prima fase: per tutti gli operatori dei reparti Covid e degli altri reparti. Grazie a questo screening si è scoperto che il 39% dei medici positivi era asintomatico e che quindi avrebbero potuto contagiare pazienti e familiari a loro insaputa.

Questo è sicuramente avvenuto in altri ospedali ed è stata la causa che ha scatenato nelle Rsa quello che Ranieri Guerra definisce un «massacro, al di là della capacità professionale e del valore sociale delle strutture. Peraltro la situazione in altri Paesi è analoga se non peggiore».

La seconda linea e i pericoli della fase 2

Come nelle Rsa, la stessa sorte è toccata ai medici di famiglia: senza procedure, senza protocolli, per quasi tutta la fase 1 senza dispositivi di protezione. «I medici di medicina generale hanno perso la vita proprio per la carenza dei dispositivi di sicurezza, mandati ad affrontare il virus a mani nude», dice Anelli. Mentre gli ospedali erano saturi e il silenzio delle città veniva trafitto dall’assordante suono delle sirene delle ambulanze, la seconda grande lacuna della prima fase è stata l’assenza di assistenza sanitaria a domicilio e di presidio sul territorio.

«Nella fase 2 ci vorrà un investimento massiccio sulle strutture territoriali – aggiunge Ranieri Guerra – sarà necessario promuovere attivamente un’integrazione socio- sanitaria. Nel passato ci sono stati tagli più o meno giustificati alla sanità, ma il punto è che la capacità preventiva territoriale è comunque andata diminuendo negli anni. Questo verrà corretto ed è giustissimo, perché sarà anche la base per la gestione dei possibili micro-focolai che con le riaperture progressive dovremmo cercare di individuare e isolare prima che si possa ripresentare un’ondata massiccia che vada a colpire gli ospedali. La concertazione con la rete territoriale della medicina generale e della pediatria di libera scelta è fondamentale».

Il timore di Ranieri Guerra è che il virus venga ospedalizzato, com’è accaduto nella prima devastante fase. Ma il governo e le regioni hanno provveduto a rafforzare i dipartimenti di prevenzione territoriali? Questi sono stati dotati degli strumenti necessari per prevenire ed evitare una nuova ondata negli ospedali? Il governo ha inviato finora alle regioni 2.7 milioni di tamponi, di cui 2 milioni già utilizzati. Prevede di mandarne altri 5 nei prossimi due mesi: saranno inviati e utilizzati partendo dagli operatori negli ospedali, nelle case di cura, nei presidi di medicina generale? Al momento inoltre non esiste ancora un sistema di tracciamento dei contagiati. La fase 2 rischia di franare subito se non si tracceranno i contatti, se non si farà diagnostica e isolamento dei sospetti, se non si eviteranno di nuovo le infezioni nelle strutture sanitarie.

La lotta contro il nemico invisibile non sarà vinta solo negli ospedali, questa la dura lezione della prima ondata epidemica.