> > Aquarius arriva a Valencia: le parole dei migranti a bordo

Aquarius arriva a Valencia: le parole dei migranti a bordo

Aquarius

"Volevo morire", dicono alcuni migranti a bordo dell'Aquarius. Ma adesso per loro inizia una nuova vita

Dopo la nave Dattilo, che ha sbarcato i primi 274 migranti, è arrivata anche Aquarius, con 106 persone a bordo. Poi Orione con i suoi 249 passeggeri. Con un canto festoso i migranti affacciati dal ponte della nave hanno salutato la loro nuova terra. L’Aquarius ha attraccato presso il porto di Valencia. Giunti al molo è stata celebrata la fine di un incubo, un viaggio di oltre una settimana in mare aperto. Molti erano giunti al limite della sopravvivenza. Le loro parole si fanno testimonianza di un calvario a cielo aperto, nel bel mezzo di mareggiate e correnti d’aria che hanno raggiunto i 35 nodi.

Le voci dei migranti

“La guardia costiera ci ha salvati”, ha dichiarato un migrante appena sceso dall’Aquarius. “Piangevamo tutti perché eravamo da 20 ore in mare e loro ci hanno tranquillizzato. Mi chiedo perché l’Italia ci ha respinto. Ci deve essere una ragione. Qualsiasi cosa accada, c’è sempre una ragione”, ha proseguito. Poi la preghiera: “Dio ha un piano migliore per noi. L’Italia ci ha respinto ma Dio non lo farà mai”. Sono queste le parole di uno dei migranti raccolte da Medici senza frontiere. La decisione del governo italiano ha lasciato interdetti i soccorritori e i volontari delle Ong. Dopo la chiusura dei nostri porti, a bordo della nave si è resistito a fatica, fondamentale è stato il soccorso ai bambini e alle donne incinte.

Aquarius

C’era chi ha rischiato di morire nel Mediterraneo. A bordo di quella nave c’era chi ha deciso di intraprendere un viaggio alla volta dell’ignoto per fuggire dall’elettrochoc dei torturatori libici. Chi è scappato per proteggere i figli e chi se ne è andato perché non aveva più nessuno con cui stare. Minori e bambini rimasti soli sono stati fagocitati e catapultati in una realtà troppo vorticosa e difficile per loro.

L’arrivo dell’Aquarius a Valencia diviene simbolo di una politica europea incapace di regolamentare i flussi migratori e non in grado di fronteggiare il dramma di quella realtà. Eppure, al di là di ogni braccio di ferro governativo, le storie di chi scende dalla nave sono storie di vita vera. Di drammi e condizioni di miseria estrema che noi non possiamo neppure lontanamente immaginare. Si tratta di testimonianze raccolte dai volontari di Medici Senza Frontiere e Sos Mediterranee. Sono quelle stesse storie che nei porti siciliani e calabresi conoscono da anni. Storie di violenze, soprusi e disperazione contro cui sembra non esservi rimedio.

Alcune testimonianze

Avevo 10 anni, ho perso i miei genitori in un incidente stradale. Ho visto mia madre e mio padre morire dissanguati”, racconta tristemente un sedicenne della Sierra Leone. Così, ha spiegato: “Sono andato a vivere da mia nonna, le volevo bene”. Poi la drammatica confidenza: “Un anno dopo le hanno sparato in testa, davanti ai miei occhi”. Il giovane si è trovato disperatamente solo. E appena adolescente. Nel pieno della sua gioventù la sua vita è stata trafitta dai dolori più atroci che un figlio, un nipote, un uomo possa mai provare. Poi la dura realtà dei fatti: “Sono finito in strada. Bado a me stesso da quando ho 11 anni”. A lui però la forza non è mai venuta meno e con coraggio non hai mai smesso di andare avanti. “Tutto quello che ho sempre voluto fare è andare a scuola e diventare dottore”, ha confidato.

A raccontare la sua storia è anche Jibril. Lui ha 34 anni e viene dalla Nigeria. E’ partito perché aveva una missione. “Ho promesso a una donna che stava morendo che avrei raccontato ciò che ho visto”. Quindi ha rivelato: “Lei era stesa, era molto debole, così ho cercato di farla sedere. Ma i carcerieri mi hanno picchiato più volte. E’ morta per mancanza di cure. Non aveva né acqua né cibo”. Poi il racconto più sconcertante: “A volte la gente era costretta a bere la propria urina”.

Anche Chidubem conosce bene quelle violenze. Le ha vissute sulla sua pelle. “Mi prendevano, mi stringevano al collo e quando pensavano che avessi perso i sensi mi davano una scarica elettrica nelle parti intime“, ha dolorosamente confidato. “E’ successo ogni giorno per un anno e quattro mesi. L’elettrochoc ogni giorno. In quella prigione pensavo di essere morto, di non avere un futuro”, ha continuato Chidubem. Anche per lui l’approdo in Europa equivale a un’importante opportunità di rinascita.

Cosa accade in Libia

Moses invece in Libia voleva proprio morire. “Sono arrivato nel 2016. Mi ci sono volute due settimane per attraversare il deserto dalla Sierra Leone ad Agades, in Niger. Infine a Sebha, in Libia”, ha raccontato ai volontari delle Ong. “Non è stato un viaggio facile, ho visto morire molte persone”, ha rivelato commosso. “Ma tu devi trovare dentro di te la forza per sopravvivere e andare avanti, se no muori”, ha spiegato tristemente.

Poi Moses ha spiegato cosa succede nelle organizzazioni libiche. “Catturano le persone, le sequestrano e poi chiedono i soldi. Se non arrivano, ti picchiano e ti torturano. Io sono stato venduto a Bali Walid e ho sperato di morire. Ma la morte non è arrivata. Solo più tardi sono riuscito a scappare. Ma mi hanno ripreso e venduto di nuovo”. Dopo aver riportato la sua personale testimonianza ha spiegato: “Ovunque in Libia come vedono un nero lo prendono e lo mettono a lavorare. Usano i neri come gli asini, come gli schiavi“.

Sulla nave c’era anche un ragazzo sempre solo e silenzioso. Così lo ha descritto Sidonie, operatrice di Intersos-Unicef, che ha viaggiato negli ultimi giorni a bordo della nave Dattilo. “Mi ha raccontato che in Libia lo hanno violentato più volte“, così gli ha raccontato sofferente il giovane. “Era sempre triste e solo, ma ieri finalmente ha iniziato a sorridere”, ha detto la volontaria all’indomani dell’arrivo al porto di Valencia. Ora per lui e per tutti gli altri 628 inizia una nuova vita.