> > Anche le vittime del Coronavirus sono diventate stanca routine

Anche le vittime del Coronavirus sono diventate stanca routine

coronavirus dolore per le vittime

Le tragedie delle vittime del Coronavirus di oggi non sono meno dolorose rispetto a marzo o aprile. Ma non sono più un’eccezione, bensì una regola.

Il rito del bollettino quotidiano è diventato stanca routine. Su alcuni giornali, la notizia delle vittime del virus scivola fra quelle certo rilevanti ma non eclatanti. Solo qualche settimana fa ci si fermava per ricordare questi morti e pure gli uomini delle istituzioni sentivano il dovere di commuoversi pubblicamente. Le tragedie delle persone colpite dal virus in questi ultimi giorni non sono meno dolorose rispetto a quelle di marzo o aprile, ma non sono più un’eccezione, sia pur frequente, bensì una regola.

Sono diventate cronaca consueta, alla quale si è fatta l’abitudine, che quasi ci attendiamo già prima di sfogliare il giornale o ascoltare il Tg e che dunque non scandalizza e non turba più nessuno, non desta più emozioni collettive. Ci sembrano lontanissime le immagini di noi sui balconi a intonare canzoni di speranza, esporre il Tricolore e dire che #andràtuttobene per esorcizzare la morte che ha fatto irruzione nel tinello di casa con tutto il suo carico di sgomento.

Se le vittime del Coronavirus diventano routine

I morti di oggi sono finiti sommersi, è il caso di dire, dal complottismo da strapazzo che va in onda senza requie sui social e dai paragoni improvvidi di chi afferma che l’anno scorso l’influenza stagionale ha fatto molte più vittime dei trentaquattromila (finora) uccisi dal virus. Come se la morte possa essere misurata con la statistica.

Poi apri Facebook e nella pagina “Verità e giustizia per le vittime di Covid-19” ecco le storie, i nomi e i volti di chi non ce l’ha fatta e ora viene ricordato dai parenti con frasi commosse, con le foto che ritraggono questi uomini e donne in momenti di vita quotidiana. Sono persone, storie di vita, affetti. Non sono numeri. C’è un realismo in quelle storie che sfiora il lirismo, la poesia. Ogni persona era preziosa per il cuore di un figlio rimasto, di colpo, senza uno o entrambi genitori, per il compagno o compagna di una vita, per un nipote che ha perso il nonno fino a qualche tempo fa energico e in salute.

Quest’assuefazione che conduce all’indifferenza è inquietante e accresce la distanza, incolmabile, tra chi soffre e muore, in quel momento sempre da solo, come i migranti inghiottiti dal mare nelle loro traversate verso l’Europa e come le vittime del virus, e gli altri, tutti noi, che per continuare a vivere non possiamo farci travolgere da quei gorghi di dolore che ci spingono a fondo.

Nel caso della pandemia, la nostra abitudine non nasce, come magari accade con i migranti, dalla provenienza e dall’identità di chi muore, ma dalla ripetizione di queste morti e dall’inevitabile assuefazione che ne deriva.

Come gestire il dolore

Non si può sopravvivere emozionandosi per tutte le vittime. Questo lo sappiamo. Non è cinismo, è realismo. Anche la tragedia più efferata, se tende a ripetersi, smette di commuovere. La notizia è stata assorbita, non scuote l’ordine del mondo né il cuore. L’assuefazione alle vittime della guerra, della fame, e ora della pandemia, in un certo senso governa il mondo. «Bisogna pur vivere», si legge un romanzo di Georges Bernanos, «ed è questa la cosa più orribile».

Forse, ha scritto Claudio Magris, «una delle più grandi miserie della condizione umana consiste nel fatto che perfino il cumulo di dolori e disgrazie, oltre una certa soglia, non sconvolge più; se annuncio la morte di un parente, incontro una compunta comprensione, ma se subito dopo ne annuncio un’altra e poi un’altra ancora rischio addirittura il ridicolo. Proprio per questo – perché, a differenza di Cristo, non possiamo veramente soffrire per tutti, così come non ci rattrista la lettura degli annunci mortuari nei giornali – non possiamo affidarci solo al sentimento per essere vicini agli altri».

Il nostro sentimento ci fa, comprensibilmente, piangere per una persona che conosciamo e amiamo e non per uno sconosciuto ma dobbiamo sapere che uomini da noi mai visti e conosciuti, come le vittime del virus divenute statistica per misurare se siamo fuori o no dalla pandemia, sono altrettanto reali, sono carne e sangue.

L’antidoto all’indifferenza

La democrazia è l’antidoto a questa ripetizione che anestetizza l’anima. Con i suoi cerimoniali e i suoi riti e le commemorazioni. Il presidente della Repubblica Mattarella ha dedicato la festa della Repubblica del 2 giugno alla memoria dei morti, è andato a Codogno ad ascoltare le testimonianze di chi quelle persone, in carne e ossa, le ha curate, assistite, incoraggiate e, in molti casi, amorevolmente accompagnate alla morte permettendo loro una fine degna ancorché in solitudine. Il 28 giugno il Capo dello Stato andrà al Cimitero monumentale di Bergamo per la Messa da Requiem di Donizetti in memoria delle vittime, così tante, nell’infuriare della pandemia, che proprio in quel cimitero sono dovuti arrivare i camion dell’esercito per portare via i feretri.

La democrazia, spesso bollata come fredda e ideologica, è invece concretamente poetica perché sa mettersi nei panni degli altri. E perpetuare il ricordo dei morti non come numeri ma come persone.