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Lo sfogo di un'infermiera del reparto Covid: "Eravamo degli eroi..."

Infermieri

Il racconto di un'infermiera del reparto Covid dell'ospedale di Rovereto.

Un’infermiera che lavora all’interno del reparto di rianimazione per degenti Covid all’ospedale di Rovereto ha deciso di sfogarsi, dopo aver lavorato a lungo in prima linea contro la pandemia. Le procedure sono complesse ed esigono grande impegno fisico e psicologico, con l’aggravante della delusione da parte delle persone.

Lo sfogo dell’infermiera

A marzo eravamo eroi, ora capita perfino che ci accusino di portare in giro il virus. Ma andiamo avanti, cercando di fare del nostro meglio” ha dichiarato l’infermiera, intervistata dal quotidiano L’Adige. L’infermiera ha spiegato che in primavera erano stati presi alla sprovvista ma con la seconda ondata c’è stata un’organizzazione migliore negli ospedali. “Ora siamo più esasperati: siamo partiti con questi ritmi il 7 novembre, e la sensazione è che ne avremo per diversi mesi, il virus è ancora molto diffuso. I turni sono faticosi, vedo anestesisti che coprono anche diciotto ore di seguito, e tutti i 20 – 21 letti sono sempre pieni, di gente sempre più giovane. Nel corso della prima ondata c’erano molti grandi anziani, ma da un paio di settimane arriva gente sui settant’anni, e anche uno di 62” ha spiegato. La donna ha spiegato che si aspettavano la seconda ondata, ma lei è sempre stata ottimista e sperava che non ci fossero ulteriori emergenze. Durante le vacanze di Natale il rischio sarà ancora più alto e spesso si ha la percezione che si stia sottovalutando la cosa. L’organizzazione in ospedale ora è molto diversa. “Rianimazione è stata allargata per comprendere una parte del blocco della sala operatoria. L’assistenza è garantita con un infermiere ogni due pazienti e ogni oggetto è ripetutamente significato, c’è odore di cloro e antibatterico dappertutto .Lavoriamo in ambienti che originariamente non erano predisposti per le cure intensive, e così ci si deve inventare tutto, c’è sempre un ingegnarsi” ha spiegato l’infermiera, aggiungendo che dal punto di vista umano continuano a parlare con i pazienti, cercando di accompagnare i gesti con le parole. Esiste l’applicazione “vicino a te” che consente ai parenti di mandare messaggi ai pazienti, che loro stampano e attaccano vicino ai letti. Si tratta di un modo per migliorare lo stato d’animo delle persone, di consolarle e di star loro vicino. A volte usano anche la musica.

Il carico fisico adesso sta venendo fuori, e psicologicamente si fa sentire. Quando sto a casa un paio di giorni, al momento di salutare un paziente mi domando se lo ritroverò al mio rientro: è dura. Per fortuna c’è anche chi migliora e cambia reparto: salutano e ringraziano, e questo ci fa stare bene. Quello che invece ferisce è il fatto che, mentre prima eravamo addirittura eroi, ora è successo sia a me che ad altri colleghi, che ci dicessero che siamo pericolosi perché portiamo il virus fuori dall’ospedale. Ed è assurdo, perché le procedure sono dettagliate: a volte mi sento più sicura in reparto che non quando sono in giro” ha spiegato l’infermiera. La pronazione è un procedimento complesso, devono essere in cinque per poterlo fare ed ogni dettaglio è molto importante. “L’uso del casco provoca attacchi di panico, ma quando i malati respirano meglio, si tranquillizzano” ha aggiunto. “La cosa peggiore sono i negazionisti. Ho sentito delle porcate assurde ma cerco sempre di lasciare tutto nell’armadietto, sia quando vado a lavorare che quando poi torno a casa. Un giorno un collega ci ha guardato e ci ha detto: ‘Avete una faccia senza espressione’. Tra di noi ci sono persone che prendono psicofarmaci, c’è chi non riesce a dormire la notte, sta male. Io reagisco facendo passeggiate, e poi provo a non ascoltare le cavolate che vengono dette. Per alcuni è un complotto, dicono che tutti gli anni muore qualcuno e che questa è un’influenza come le altre, ma io non ho mai visto una distesa di persone intubate come questa. Faccio questo lavoro da oltre dieci anni, ma non mi sono mai trovata in una situazione del genere” ha spiegato l’infermiera di Rovereto. “La pandemia dovrebbe insegnarci una solidarietà più estesa” ha concluso.