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"La vita comincia venerdì": un capodanno noir nella Bucarest fin de siècle

la vita comincia venerdì recensione

La scrittrice romena Ioana Pârvulescu si cimenta in un mistery a sfondo storico.

C’è modo migliore di iniziare un anno che tutti ci auguriamo molto diverso da quello trascorso che immergersi nelle brume di una Bucarest di fine Ottocento, con una storia che contamina il poliziesco con il romanzo storico e le atmosfere magiche di Canto di Natale di Dickens? Grazie all’editore Voland, tra i pochi attenti in Italia alla narrativa dell’Est Europa e della Romania, in particolare, (sui suoi tipi tutte le opere di Mircea Cărtărescu, il maggiore scrittore romeno vivente), è da poco uscito in Italia La vita comincia di venerdì, di Ioana Pârvulescu nella traduzione di Mauro Barindi (p. 346, euro 18).

La storia si dipana negli ultimi tredici giorni del 1897. Un cocchiere, Petre, rinviene due corpi lungo una strada nel bosco innevato di Băneasa, a nord della capitale romena: il primo è un personaggio senza storia e senza tempo (leggendo il romanzo fino alla fine, si capirà perché), uno straniero che qualcuno azzarda a identificare con Jack lo Squartatore che funestava le cronache di mezza Europa proprio in quegli anni, il secondo è un giovane biondino ferito gravemente e che morirà di lì a poco. Parte da qui un poliziesco ante litteram che ha nel signor Costache, capo della polizia, il suo Sherlock Holmes. Ma il fascino del racconto è nella descrizione accurata e documentata della Bucarest del periodo, con riferimenti puntuali a persone, luoghi, avvenimenti, nei quali poi si inserisce la trama romanzesca.

Parvulescu, La vita comincia venerdì

Originaria di Brașov in Transilvania, Ioana Pârvulescu è innazittutto una brillante accademica con alle spalle diversi saggi molto apprezzati, tra questi, Nell’intimità del XIX secolo che descrive la vita quotidiana nell’800, uscito nel 2005 e poi in una certa misura “riutilizzato” quattro anni dopo in questo romanzo, suo esordio nella narrativa, che le è valso il Premio Europeo per la letteratura.

Si respira in queste pagine, tra incantamento e un pizzico di nostalgia, l’atmosfera un po’ magica di quella che nel periodo interbellico, all’apice del suo splendore, veniva chiamata la “Petit Paris”: sontuosi palazzi e dimore signorili, ampi viali percorsi dalle carrozze a cavallo, il fervore dei grandi giornali, come gli antagonisti, uno filomonarchico e l’altro democratico, Universul e Adevărul, le sue suggestive chiese ortodosse, come quella di Sărindar, abbattuta in quegli anni dal governo per far posto a una più ampia e moderna.

C’è nel romanzo tutto l’ottimismo e la serenità di quel periodo tardo-positivista, con la sua fiducia nel futuro e nel progresso, lo stupore per la scoperta, ad esempio, dei raggi Roentgen (i raggi X), e lontano ancora dai sinistri presagi dei conflitti bellici: come si legge all’inizio, “pochi anni prima del 1900 le giornate erano capienti”, “la gente era ottimista e credeva, mai come prima e mai come dopo, nella forza della scienza, nel progresso e nel futuro”.

Parvulescu

Siamo lontani dalle convulsioni e le esasperazioni della Romania (così come di tutto il mondo) di oggi e forse, come nota Bruno Mazzoni, già docente di Letteratura romena all’università di Pisa e traduttore italiano delle opere di Cărtărescu, nella postfazione, il personaggio ritrovato vivo e spaesato (appunto) nella neve, Dan Creţu, è in fondo “una metafora del lettore nostro contemporaneo, proiettato per arcane vie in uno spazio-tempo altro” in cui non può non cogliere l’abissale lontananza dalla contemporaneità. Oltre che nella ricostruzione storica, il libro è pregevole nella caratterizzazione dei personaggi, che alle volte prendono in mano il racconto in prima persona, alternandolo con l’io narrante.

È il caso di una giovane fanciulla, Iulia, che, come tante signorine di buona famiglia racconta dal suo punto di vista gli avvenimenti nel suo journal, diario, che inizia proprio il venerdì prima di natale (da qui il titolo), vagheggiando un presente felice tra sogni, amori e ambiziose letture, come Vanity fair di Thackeray, naturalmente in lingua originale. Si entra poi nei palazzi nobiliari, come quello dei Livezeanu dove si svolge la sontuosa cena di fine anno che chiude il libro, ma anche nella redazione di Universul con i suoi giornalisti e redattori alle prese con il mistero dei due uomini ritrovati nella neve. Non manca neppure, in questo intreccio di storie, il furto di una preziosa icona adorna di due diamanti che mette subbuglio anche nel Santo Sinodo ortodosso.

I riferimenti della Pârvulescu sembrano andare nella direzione della grande narrativa russa e tedesca, più che della contemporaneità romena, come osserva Cărtărescu, nella prima postfazione: “Non ha nulla a che vedere con le problematiche del regime comunista, dell’epoca di Ceaușescu e della Securitate, né con la furia chiassosa dell’anarchismo punk, traboccante di violenza e sesso”.

È, in effetti, un romanzo sospeso nel tempo o tra i tempi. Perché, per dirla con il misterioso Dan Creţu, “il mio passato si è fuso col futuro” e “quel che è stato è ciò che sarà”: “sono gli anni a stare fermi, simili a un paesaggio visto dal finestrino di un treno, mentre siamo noi, noi, quelli che passano”.