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Da icona gay a simbolo del femminismo, Raffaella Carrà rappresentava quell’Italia che abbiamo dimenticato di essere

Raffaella Carrà

Non una donna né una santa: Raffaella Carrà era uno stile di approcciarsi all’esistenza, capace di mettere d’accordo casalinghe e drag queen.

Ci aveva illuso di essere immortale, Raffaella Carrà. Ci aveva illuso – con il suo carrè platino sempre perfetto, quei grandi occhi scuri e quel fisico asciutto e bellicoso, la risata iconica – che non se ne sarebbe mai andata. Non adesso, non così.

Aveva 78 anni, era malata, ma in ottemperanza alla sua storica riservatezza aveva scelto il silenzio, condividendo il dolore solo con quella cerchia di amici che formavano la sua famiglia. Lei – mai sposata, senza figli, compagna di vita di Gianni Boncompagni prima, di Sergio Japino poi – aveva vissuto con la convinzione che la famiglia non fosse quella che ti ritrovi, ma quella che con gli anni sai costruirti. E che l’amore vero diventa altro – amicizia e senso di fratellanza -, ma non svanisce mai.

Di amore nel corso della sua lunghissima carriera fra l’Italia e la Spagna, ma dentro il mondo intero, ne ha conquistato molto. Da ieri una corrente di cordoglio sta attraversando “da Trieste in giù” il nostro Paese, con un florilegio di ricordi personalissimi, di profondo sgomento. Perché tutti – ma proprio tutti, non solo chi l’ha conosciuta, chi l’ha frequentata, chi ha avuto la fortuna di lavorarci – hanno un frammento di vita condiviso con lei. E spesso è un ricordo di liberazione (“sono un cuore vagabondo che di regole non ne ha”). Un ricordo che fa venire il sorriso (“tanti auguri, a chi tanti amanti ha”). Una domanda nazionale: ma quanti fagioli c’erano in quel maledetto barattolo? C’è mai stato qualcuno che per davvero avesse cognizione del numero preciso?

Per tutti noi italiani, la Raffa nazionale non superava le quaranta primavere, eternamente abbigliata di paillettes, pelle e aderentissime tute. “Ognuno ha l’età che merita” ripeteva Coco Chanel, e lei di anni ne meritava pochissimi come tutte le donne che hanno unito a un’immagine pubblica perfetta (l’avete mai vista spettinata? L’avete mai vista con un abito che non fosse straordinariamente corrispondente alla sua personalità?) un’esistenza intimamente coerente, scandita da ribellioni (che adesso ci sembrano innocenti come mostrare l’ombelico al fianco di Corrado in Canzonissima), rivoluzioni sconvolgenti e un trascinante desiderio di cambiare. Rinnovarsi sempre. Rinnovarsi nonostante il parere degli altri, nonostante il giudizio degli altri. Compresa la DC.

La sua vita non è mai stata banale, fin dalla nascita. Cresciuta da tre donne (“mia mamma fu una delle prime a separarsi nel dopoguerra”), approdò bambina a Roma dove prima studiò all’Accademia Nazionale di Danza, dunque al Centro sperimentale di cinematografia. Il primo debutto ufficiale lo fa bambina, a 18 anni approda a “Tempo di danza” (era il 1961) dunque nove anni dopo – a dimostrazione che la gavetta è un’emblema dell’anima, che forgia il cuore e seleziona solo le più resistenti e/o dotate – approda a Canzonissima e alla popolarità.

La sua vita pubblica è costellata da una grande riservatezza, ma in televisione muore e rinasce più volte: chi non ha mai visto “Pronto, Raffaella”, ma anche la sua “Domenica In”, le variazioni di “Carramba!” – con quegli stupendi valletti che anticipano i tempi – o “The Voice of Italy”? Chi non è mai rimasto incantato – letteralmente incantato – dalle sue frasi fulminee, e da quella risata contagiosa che sono andate in onda per oltre cinquant’anni?

A guardarla oggi, la storia di Raffaella Carrà sembra una corsa dirompente contro ogni cosa. Scandalizza l’Italia puritana, si scaglia come un proiettile contro discriminazioni, benpensanti e stereotipi. Dalla prima linea che sono i riflettori della TV ammiraglia sdogana atteggiamenti provocanti (per l’epoca) e porzioni di pelle nuda. Spiega che “il mondo non è fatto di gay e di etero, ma di creature”. Si batte in prima linea contro le costrinzioni. A cominciare dai capelli (“Ero libera. Anche i colpi di testa erano il segno della libertà dalla lacca”), per costruirsi nello spirito di cui Pedro Almodóvar fa una sintesi straordinaria: “Raffaella Carrà no es una mujer. Es un estilo de vida”.

Insomma, non una donna né una santa: uno stile di approcciarsi all’esistenza. Un feticcio iconico, invidiatissimo e stimatissimo. Una donna che vende 60milioni di dischi, porta a casa 22 dischi d’oro e di platino, 13 telegatti. Una donna che è capace di attraversare il tempo con una grazia straordinaria, e sa mettere d’accordo casalinghe e drag queen. Con gli anni diventa un’icona gay mondiale (lei ci scherzava su: “Perché piaccio tanto ai gay? Morirò senza saperlo”), tanto da venire premiata nel 2017 – quattro anni fa, sembra passata un’epoca – al World Pride per il suo “coraggio, energia e libertà”. Tre parole che fanno una sintesi di questa supereroina del contemporaneo, il cui motto era “minima spesa, massima resa”.

Una delle frasi preferite della Regina Raffaella era anche “puoi togliere tutti i fiori, ma non puoi togliere la primavera”. Forse aveva ragione. E allora, per quanto lei non ci sia più – adorata come poche altre, esempio di modernariato eterno, cristallizzato in un’immortalità pari solo al suo look iconico –, le sue canzoni e le sue straordinarie coreografie continueranno a essere una pietra miliare di quell’Italia che forse abbiamo dimenticato di essere, e che ci farà continuare a battere il cuore. Esattamente come ha sempre saputo fare lei.