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Nadia Toffa e l'insostenibile leggerezza dell'essere malati

nadia toffa

Ci sono argomenti che è spinosissimo affrontare. Una sorta di zona rossa nella quale non addentrarsi, pena finire in un verminaio di polemiche, insulti, attacchi

Ci sono argomenti che è spinosissimo affrontare. Una sorta di zona rossa nella quale non addentrarsi, pena finire in un verminaio di polemiche, insulti, attacchi. Un luogo dal quale si esce solo con le ossa rotte, e non sempre metaforicamente.
Uno di questi è sicuramente la malattia. Perché se da una parte è evidente che occuparsi mediaticamente di malattia, e quindi di dolore, ci pone di fronte a una scorciatoia per la pancia o il cuore della gente, perché se non tutti abbiamo sofferto a causa di una malattia, sicuramente abbiamo un caro che lo ha fatto, e magari ne è morto, dall’altra è altrettanto evidente che proprio le esperienze personali che ognuno di noi ha nei confronti della malattia, spesso esperienze che hanno lasciato segni indelebili sulla nostra pelle, trasforma l’argomento in un tabù, come a voler commentare o spiegare le scelte sentimentali di qualcuno a quel qualcuno e al resto del mondo.
Meglio quindi lasciare l’argomento alle sale d’aspetto dei medici della mutua o ai discorsi postprandiali del cenone di Natale, meno attenzione, certo, ma anche meno rischi di cadere e farsi male.
Di questa opinione sembra non essere affatto Nadia Toffa, la Iena. Credo sia noto a tutti che, durante la scorsa stagione del programma di Parenti la Toffa ha avuto un malore, che si è poi dimostrato essere il sintomo di un tumore. Lo ha raccontato la stessa Toffa, senza nascondersi dietro comunicati stampa di routine, anzi, veicolando con la sua storia un messaggio di speranza che, in un’epoca di disillusione come questa, non hanno incontrato il placet della gente dei social. Figuriamoci oggi che, promuovendo un libro in cui racconta della sua malattia e di come ne è uscita vincente, la Toffa si è lasciata andare a frasi come “il cancro è un dono”. Apriti cielo.

nadia toffa post

Il mondo dei social si è scatenato, imputando in maniera piuttosto compatto alla Iena la volontà neanche troppo mascherata di spettacolarizzare la malattia, il cancro appunto, a fini commerciali, cioè per vendere il proprio libro. Se a guidare le fila, per visibilità e potenza di fuoco, è stato il giornalista di Libero Filippo Facci, sono le decine di migliaia di semplici utenti che hanno raccontato le proprie esperienze personali, quasi sempre negative, a aver reso la vicenda Toffa, appunto, una vicenda, un caso mediatico.

Nadia Toffa

Il tema è, quindi, da una parte la spettacolarizzazione della malattia, del dolore, fatto che in Italia farebbe in se’ sorridere, dal momento che da anni abbiamo ore e ore di programmi pomeridiani sulle reti generaliste che proprio di dolore spettacolarizzato si occupano, dall’altra, e qui la faccenda si complica, l’eccessiva leggerezza con cui il tema viene trattato, nei toni, nella scelta delle parole, nell’esternare un ottimismo che spesso, ahinoi, non ha ragion d’essere, e che quindi può venir interpretato come superficialità se non addirittura come cinica volontà di sfruttare un argomento verso il quale in molti sono sensibili per fare business.
Qui, credo e temo, perché non sta certo a me fare la critica letteraria di un’opera che, sembrerebbe, letteraria non è o come tale non intende porsi, il punto è uno e uno soltanto: Nadia Toffa ha il sacrosanto diritto di parlare con le parole che ha scelto e che l’hanno aiutata a scegliere della sua malattia. Lo ha fatto in un libro dopo averlo fatto in post e interviste. La gente, il suo pubblico, nel senso di chi la segue perché la ammira, e quello che è suo pubblico solo in questo contesto, cioè che è incappato in lei sui social, magari proprio in seguito a questa polemica, ha il sacrosanto diritto di manifestare il proprio disagio per questa operazione, finché si evitano gli insulti e gli attacchi personali, addirittura gli auguri di morte (ma dire questo è pleonastico).
Quando si sceglie di usare la parola dono parlando di cancro, questa sembra a ragione la molla che ha fatto scattare questa sorta di notte dei lunghi coltelli nei suoi confronti, lo devi fare consapevolmente. Perché la parola dono, se si vuole uscire fuori da una retorica pret a porter che lascia il tempo che trova, se, quindi, si vuole fugare da certi riferimenti spirituali o spiritualisti, viene associata a qualcosa di piacevole, che ci scalda il cuore, ci rende felici, di cui ci ricordiamo con piacere anche a distanza di anni. Perdere un proprio caro, o sapere di avere i giorni contati per un cancro, immagino, poco ci fa pensare a un dono, semmai a una condanna, al limite a una prova da superare. A un dono proprio no, anche se ne siamo usciti salvi, come nel caso di Nadia Toffa e di tante altre persone come lei.
I poeti hanno il permesso, permesso che si sono arbitrariamente attribuito e che noi siamo felici di concedere loro, di usare le parole anche in contesti diversi da quelli che la grammatica, la linguistica e anche il semplice comune parlare di solito pretendono. Sanno farlo, e con il loro fare ci regalano una prospettiva diversa sulla nostra stessa vita, perché nessuno di noi è uso parlare in rima, o guardare alle stelle o al cuore come fossero oggetti del nostro uso quotidiano. Solo i porti, però.

Nadia Toffa

Usare la propria popolarità per fare da megafono a certe iniziative, dalle raccolte fondi alla sensibilizzazione per la prevenzione, faccio due esempi, è cosa buona e giusta. Usare la propria popolarità per aiutare chi vive un momento difficile per una malattia portando il proprio esempio di speranza anche. Se però nel far questo si incappa nell’ambiguità, sia essa dovuta a reale malafede o semplicemente a scarsa capacità di rendersi credibile, beh, in assenza di arte, quindi di quella cornice che pretende a ragione una digestione più lenta, magari anche aiutata da chi quel piatto ha studiato per digerirlo e farlo digerire, se si incappa nell’ambiguità allora siamo di fronte a un probabile passo falso, di quelli che in questi tempi di processi sommari fatti dal tribunale di Facebook si pagano cari.

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