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Palù: "Il rischio è di morire di lockdown piuttosto che di coronavirus"

Coronavirus Palù

Il virologo Palù ha messo in evidenza la bassa mortalità del coronavirus affermando che "rischiamo di morire di lockdown più che di infezione".

Il professore di microbiologia e virologia all’Università di Padova Giorgio Palù ha messo in evidenza come il clima di paura e il lockdown rischiano di far morire più del coronavirus. Secondo lui le istituzioni, più che provvedere alle chiusure, dovrebbero occuparsi del rafforzamento del sistema sanitario.

Palù: “Rischiamo di morire di lockdown”

La paura sta diventando un dogma, come il Covid ed il rischiamo tutti di morire“. Così si è espresso l’esperto in un’intervista al Tempo, adducendo che ciò sia una delle cause che sta portando i Pronto Soccorso e gli ospedali al collasso. Presi dall’ansia, i cittadini si recano infatti in una struttura ospedaliera al minimo sintomo dell’infezione rischiando di intasare attività e strutture che dovrebbero essere dedicate anche a malati affetti da patologie importanti (cardiovascolari, neoplastiche, degenerative) che hanno un significativo impatto sulla mortalità della popolazione generale.

Pazienti che invece devono attendere per le cure di cui necessitano con considerevoli rischi per la loro salute. Inoltre la corsa ai Pronto Soccorso a suo dire aumenta anche la possibilità di accendere focolai di contagio in ambiente ospedaliero. Alla luce di tutto ciò, ha continuato, il nuovo dpcm si è occupato solo di chiusure e non di disegnare una proiezione di misure sanitarie innovative atte a proteggerci anche in futuro da nuove epidemie. Il rischio è quindi quello di “morire di lockdown più che di coronavirus“.

A tal proposito ha evidenziato che la mortalità dell’infezione si colloca tra lo 0,25% e lo 0,40%, vale a dire 3/4 morti ogni mille casi. Inoltre l’età media dei decessi è di 82 anni: “pochissime le persone giovani sotto i 50 anni, casi che poi vengono amplificati dai giornali“.

Apertura delle scuole e trasporti

Quanto ai motivi che hanno portato alla seconda ondata, non ha potuto non citare l’apertura delle scuole. Menzionando studi condotti negli Stati Uniti che dimostrano come la chiusura degli istituti avesse impattato significativamente sulla riduzione dell’espansione del virus, ha spiegato che è proprio da metà settembre che la crescita dei casi positivi è passata dall’1 al 12%. Non tanto per l’ambiente scolastico in sé quando per ciò che viene prima e dopo la scuola, soprattutto con l’occupazione studentesca dei mezzi di trasporto. Di qui la sua conclusione: “Purtroppo non abbiamo messo a profitto la lezione che avremmo dovuto invece apprendere. Cioè il distanziamento sui mezzi, perché se si è ammassati, gomito a gomito, non basta la mascherina“.