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Fabrizio Cammarata presenta "Of Shadows" il nuovo album

Fabrizio Cammarata. Of Shadows

Intervista a Fabrizio Cammarata, il cantante palermitano che ha diviso il palco con artisti di fama mondiale come Patti Smith e Ben Harper

Fabrizio Cammarata è l’artista a metà tra la sua Palermo e il resto del mondo, il cantante che ha diviso il palco con Patti Smith e Ben Harper, il bambino che fin da piccolo ha deciso di scrivere in musica il suo processo creativo (momento artistico che lui stesso definisce incontrollabile e perciò scisso tra il mondo del pregio e quello del difetto) facendolo diventare il motore della sua esistenza musicale.

Intervista a Fabrizio Cammarata

Il suo nuovo album dal titolo “Of Shadows” è un progetto artistico interiore, non rivolto alla natura, ma all’indagine e alla documentazione delle mille sfaccettature dell’animo. Ai microfoni di Notizie.it il cantante palermitano si racconta in tutte le salse: dall’album alla scrittura, fino alla nuova fruizione della musica veicolata da Spotify.

Of Shadows, le ombre di Fabrizio Cammarata

Come nasce il progetto musicale di Fabrizio Cammarata?
Il progetto nasce a Palermo, la città da dove vengo e che permea (anche se non sembrerebbe a un primo sguardo) qualsiasi cosa io faccia musicalmente, tutto nasce da lì, nasce da una città che è controversa. Palermo è una città che si presta a essere amata e odiata allo stesso tempo in maniera molto forte, un luogo che non dà spazio a delle vie di mezzo sentimentali o di qualsiasi altro tipo.

Una città come Palermo crea una tensione molto forte, e nel mio caso questa tensione è stata una specie di molla che mi ha spinto a fare questa scelta, quella della musica e quella di esprimermi in questo modo, d’altro canto mi ha obbligato ad abbandonarla e uscire fuori perché Palermo ti ama ma in qualche modo ti molla continuamente.

Così nasce l’internazionalità del progetto, che non è una scelta ma una necessità. Ho cominciato a scrivere canzoni già nella tenerissima età e praticamente fin da subito in un inglese, all’inizio un po’ stentato, ma che poi ho trasformato nella mia madrelingua musicale. Il mio background è fatto di musica che è stata fatta in quella lingua. Fin da ragazzino ascoltavo musica che veniva da lì, da Bob Dylan a Bob Marley e poi tantissimi altri quindi è li che ho trovato la mia dimensione.
Un cantante a metà tra la Sicilia e tutto il resto del mondo, molto internazionale: è più difficile sfondare nel panorama musicale italiano o in quello mondiale?
Non me lo sono mai chiesto perché non è da questa domanda che nasce questa mia attitudine all’internazionalità. Non è stata una scelta, è stata una cosa quasi naturale: fin da subito ho deciso che questo sarebbe stato anche un mestiere non soltanto un grande amore, una grande passione, ho dato per scontato quasi che il territorio di competenza di questa mole dovesse essere il più ampio possibile, non mi sono mai chiesto se io fossi un artista italiano da esportare all’estero.

Mi sono detto “Va bene, il campo da gioco in cui stiamo facendo questa partita è enorme”. Ho sempre trattato ogni territorio in maniera non privilegiata, quindi anche come casa mia: ammetto che però è abbastanza buffo per me aver fatto l’unica data del tour italiano di Of Shadows a Milano.
Chiaramente io adoro suonare in Italia più che ogni altra cosa però, la gavetta io l’ho cominciata subito all’estero quindi è quasi una condizione necessaria, naturale, l’ho sentito dal primo momento.

Scrivi i tuoi testi in inglese. Qual è il motore che ti spinge a scrivere e a produrre i tuoi brani?
Il mio processo creativo è veramente molto aleatorio, non so se questa sia una cosa di cui vantarsi o meno, in realtà a me preoccupa molto che io non abbia un grandissimo controllo sul mio processo creativo. Sono capace di restare tanto tempo senza scrivere nulla e poi improvvisamente scrivere tre canzoni in un giorno, è qualcosa di molto emozionale.

Credo molto in un concetto di ispirazione quasi divino, trascendentale come se veramente qualcosa venisse da fuori e utilizzasse me soltanto come in uno strumento, come strumento per esprimersi, quindi io non ho veramente un controllo su questa cosa.
Tutto quello che scrivo è frutto di esperienze molto personali, tendo ad essere molto intimista tendo ad essere molto autobiografico nelle cose anche quando non sembra, tendo a cercare di sublimare delle esperienze che poi siano amorose, di delusione, di felicità di qualsiasi tipo e di sublimarle sempre in forma di canzone. Quindi è assolutamente una sorta di auto-terapia se vogliamo, questo disco, Of Shadows che vuol dire “Delle Ombre” è quasi una titolazione da trattato medievale, no?
È come se fosse un trattato oscuro sulle ombre solo che non parlo delle ombre nel senso di scienza naturale, ma delle ombre dell’anima, le mie in particolare, ed è come se avessi voluto fare una ricerca dentro di me con queste canoni, nelle parti più oscure e più scomode di quest’anima senza vergogna di quello che avrei potuto trovare in questa ricerca speleologica, viene tutto da lì.

I featuring e il palco: da Harper a Banhart

Hai condiviso il palco con tanti artisti di grandissima fama, quali sono i motivi che ti hanno spinto a costruire i tuoi successi?
Il fatto di avere sempre suonato tantissimo all’estero e di aver avuto il privilegio di confrontarmi con alcuni fra i miei più grandi eroi mi ha fatto crescere molto. Condividere il palco con gente come Ben Harper, Patti Smith, Devendra Banhart, Daniel Johnston, il fatto di aver avuto veramente dei rapporti anche molto stretti con gente come Damian Rice e I Calexico: è stato straordinario. Mi sono messo molto in discussione.

Tutto ciò mi ha dato la misura di qual è la sfida a cui devo sottostare e che devo accettare in qualche modo, e la sfida da un lato è quella di creare musica di qualità, di chiedersi continuamente se ha un senso nel mondo di oggi aggiungere qualcosa alle miliardi di cose che ci sono, ai miliardi di canzoni, se quella canzone che hai scritto è soltanto rumore di fondo o se veramente può avere senso, e quello me lo chiedo continuamente e di questa cosa sono molto contento: avere questa sorta di timore anche di senso di responsabilità dal punto di vista tecnico ti porta a sviluppare un gusto.

Ho avuto poi, la fortuna di poter lavorare nella mia carriera con tantissimi artisti e anche produttori di livello. Non mi sarei mai sognato fino a qualche anno fa di collaborare con loro: il mio ultimo disco è stato prodotto da Dani Castelar un produttore che ha fatto gli ultimi dischi di Paolo Nutini, ha lavorato anche con i R.E.M, con gli Snow Patrol, con gli Editors, personaggi che sono abituati a lavorare con i più grandi.

Spotify e il nuovo mercato discografico

All’interno del nuovo panorama del mercato musicale (in particolare quello digitale) qual è il commento di Fabrizio Cammarata relativo alla piattaforma Spotify e al suo utilizzo?

Le tecnologie si sviluppano, l’innovazione la puoi assecondare e cercare di sfruttarla al meglio, è chiaro che uno pensa sempre ai vecchi tempi d’oro in cui c’erano i vinili o nei primi del 90 i CD. I dischi si vendevano tantissimo, c’era un mercato florido si facevano tantissimi soldi. C’erano i negozi di dischi e i veri negozianti di dischi una specie che ormai si è estinta.

Le tecnologie sono cambiate e devo dire che oggi mi sento sicuramente più rappresentato da Spotify di quanto non lo fossi dalle piattaforme in cui si scaricava illegalmente la musica qualche anno fa, quindi quantomeno c’è un minimo di riconoscimento nei confronto di chi la musica l’ha prodotta e quello se lavori bene anche con Spotify, con Diesel o Apple Music alla fine riesci ad avere dei risultati misurabili, io sono il primo utilizzatore di Spotify lo ammetto.

Certo ci vorrebbe forse un po’ più di educazione rivolta all’indagine più approfondita della musica perché proprio questo tipo di fruizione ti porta a un percepire la musica in modo molto più superficiale: è un peccato perché dietro a ogni canzone che noi ascoltiamo su Spotify c’è tantissimo lavoro. Nonostante tutto io credo ancora nella forma album, ho fatto un concept album e mi piace pensare che si possa leggere come un libro: dal capitolo 1 al capitolo 11.