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Partiamo dall’inizio. 1962-1968. New York. Manhattan. 47^ strada. The Factory: un incubatore schizofrenico di arte, feste, anfetamine. Qui prendeva forma tutto ciò che attraversava la mente febbrile delle nuove avanguardie americane. Qui si distruggevano i vecchi retaggi conformisti per dar sfogo alle nuove emancipazioni sociali. La produzione artistica si svolgeva in modo seriale e il via-vai della fauna umana era un’orgia bizzarra di pittori, musicisti, scrittori, modelle, drag queen, liberi pensatori, perditempo, manager in cerca di nuove promesse e inclassificati personaggi della vita mondana statunitense.
E chi troneggiava all’apice di questa Torre di Babele? Andy Warhol, colui che si tingeva i capelli di grigio per non essere più costretto ad invecchiare e che sosteneva che la “cosa più bella di Firenze è il McDonald’s”. Warhol nacque a Pittsburgh, nel 1928, e passò a miglior vita a New York, nel 1987, in seguito a complicazioni sorte durante una banale operazione alla cistifellea. E in mezzo a queste due date, una vita di eccessi e di funambolici deliri.
Andy Warhol, un americano dalle origini slovacche
Guardatelo bene. I tratti del suo volto hanno ben poco di anglo-americano. A mettere nero su bianco questa evidente constatazione sono le origini dei suoi genitori, immigrati negli Stati Uniti e provenienti da un piccolo e sconosciuto paesino della Slovacchia nord-orientale racchiuso tra Polonia e l’Ucraina. E’ Medzilaborce, luogo dimenticato dove la vita scorre lenta e quasi muta, paesino sonnecchiante raggiungibile solo attraverso strade ondeggianti tra foreste selvagge e binari dismessi. Medzilaborce, infatti, è ancora avvolto in quel respiro post-sovietico che riposa tra le scritte in cirillico e sui volti degli abitanti irrigiditi dagli inverni troppo nevosi.
Essendo un villaggio collocato ben al di fuori dalle principali rotte di passaggio, e circondato da una montagna invalicabile, per giungervi bisogna volerlo. Non ci sono altre vie. E l’unica ragione che può condurre un visitatore fino a qui è il Museo di Andy Warhol.
Il Museo di Andy Warhol: proprio qui?
Il Museo di Andy Warhol è l’ultima cosa che ci si aspetta in un posto come questo. Esteriormente è un edificio cubico tappezzato di richiami psichedelici, parentesi lisergica in mezzo a uno sfacciato realismo. La spigolosa geometria della struttura e la pallida illuminazione dell’ingresso ricordano l’austera accoglienza di una scuola di regime. L’accesso ai piani superiori, invece, è separato da una cancellata in ferro che evoca immagini carcerarie e claustrofobiche. Ma una volta superato tutto questo, il contenuto delle sale lascia a bocca aperta. E fa invidia ai grandi colossi museali del mondo. Ad incominciare dalla scalinata fiorata e dai soffitti tappezzati di accecanti cromatismi d’effetto. Saliamo?
Le migliori opere dell’artista
Le sale superiori sono completamente tappezzate di capolavori warholiani. Lo spazio abbonda e i visitatori (peccato per loro) scarseggiano. Rari dipinti campeggiano solitari sulle alte pareti bianche e sui pannelli strategicamente allineati, in un sali e scendi di scale e luci che si accendono al passaggio: Bob Kennedy, Ingrid Bergman, Sigmund Freud, Franz Kafka, Albert Einstein, la Regina Elisabetta. Qualsiasi personaggio della storia che vi viene in mente qui lo potete trovare.
E c’è anche lui. L’iconico, l’altrove introvabile: Lenin. Rararmente ha lasciato Medzilaborce. Per godersi questo capolavoro, uno dei migliori di Warhol, bisogna guidare fin qui. L’opera è collocata in una stanza disadorna, per meglio catalizzare gli sguardi. Ed è illuminato debolmente, per meglio sottolineare la sua autorevolezza. L’artista ne ha solo abbozzato il profilo, gli ha posto la mano sul libretto e lo ha stagliato su uno sfondo rosso. Il motivo? Per non farci mai dimenticare che il tempo scorre, la storia insegna, i volti cambiano, ma le idee non muoiono mai.