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La Festa della donna e la fragilità degli stereotipi di genere

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Che la “Giornata internazionale della donna” sia una festa anche del genere maschile. Che si regalino mimose anche agli uomini.

È ormai da più di un secolo che l’8 marzo si festeggia la “Giornata internazionale della donna”. Oltre un secolo di lotta che ha tentato di diffondere nella società umana la consapevolezza della necessità di raggiungere la parità di genere. Una parità di genere che sembra ancora distante, nonostante i passi in avanti fatti siano stati molti. Determinante il suffragio universale, che nel corso del Ventesimo secolo si è diffuso capillarmente nel mondo occidentale, riconoscendo al genere femminile la dignità, l’autorità e la competenza per esprimere la propria idea. L’ingresso delle donne nella politica ha fatto emergere temi e questioni la cui urgenza era probabilmente sentita da tempo dal genere femminile. Questioni come il divorzio, l’aborto e la parità retributiva sono diventate prioritarie per la società occidentale, che ha finalmente dovuto affrontare. Si tratta di battaglie la cui vittoria ha portato beneficio non solo al genere femminile, ma alla società intera. Tuttavia, l’urgenza di definire diritti in merito era avvertita principalmente dalle donne, perché schiacciate e sofferenti a causa del vuoto legislativo che sussisteva e non le tutelava.

Emancipazione femminile e ritorno

È facile incorrere nell’errore di dare per assodati i valori e i diritti che queste battaglie hanno apportato alla società. Quella femminista non è però una battaglia conclusa né tantomeno accettata. Basti pensare alla mozione per finanziare le associazioni cattoliche che si oppongono all’interruzione volontaria di gravidanza approvata dal consiglio comunale di Verona o al ddl Pillon: dei veri e propri dietrofront storici, che rischiano di compromettere le conquiste della lotta di civiltà. Si pensi ancora al volantino pubblicato dai giovani della Lega di Crotone, in cui si afferma essere offensivo per il genere femminile un ruolo nella società diverso da quel “ruolo naturale della donna volto alla promozione e al sostegno della vita e della famiglia” o ancora offensiva sarebbe “una cultura politica che rivendica una sempre più marcata autodeterminazione della donna che suscita un atteggiamento rancoroso e di lotta nei confronti dell’uomo”.

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La battaglia femminista e i ruoli di genere

Al di là della gravità delle parole usate dalla Lega Giovani Salvini Premier di Crotone, fa riflettere la frase “suscita un atteggiamento rancoroso e di lotta nei confronti dell’uomo”. Cosa significano queste parole? Che la lotta portata avanti dai movimenti femministi (che non comprendono solo donne) faccia percepire agli uomini rancore nei loro confronti? Può essere. In fondo anni di società patriarcale potrebbero aver portato il genere femminile ad additare al genere maschile le colpe della propria inferiorità sociale, politica e lavorativa. Eppure non si tratta di una lotta a due fazioni di genere: non è una battaglia donne vs uomini. Ciò che i movimenti femministi rivendicano per le donne deve essere considerato come un’acquisizione e una crescita anche per il genere maschile. Nell’appello di “Non una di meno” per lo sciopero dell’8 marzo si legge “Incrociamo le braccia e rifiutiamo i ruoli e le gerarchie di genere”. I ruoli e le gerarchie di genere non riguardano solo le donne, riguardano anche gli uomini.

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La fragilità dello stereotipo di mascolinità

Identificare la donna come madre, come colei che tutela la famiglia e la vita a discapito di tutto è la gabbia da cui il genere femminile sta cercando di evadere. C’è però un’altra gabbia, quella che impedisce a molti uomini di unirsi a questo tentativo di evasione: è la gabbia identitaria in cui è intrappolato il genere maschile. La virilità, l’essere “veri” uomini è lo stereotipo da cui gli uomini devono liberarsi a loro volta. E, come ogni stereotipo, si basa su presupposti di estrema fragilità. Nel 2008 in “Un vero uomo dovrebbe lavare i piatti” Caparezza ha descritto magistralmente la fragilità dello stereotipo di mascolinità. “Non sei un uomo se a fare mazzate non sei buono”, “Non sei un uomo se non guidi le macchine grosse”, “Non sei un uomo se di notte non vai al bordello! Non sei un uomo se non ti tira il pisello”, “Non sei un uomo, sei un gay se ti metti a piangere”. Si tratta di stereotipi che legano la virilità a una performance di genere che impone violenza, prevaricazione, distacco verso la dimensione affettiva e abbruttimento. Insomma, per differenziarsi dall’esteriore fragilità femminile, il genere maschile è costretto a rivendicare la propria differenza, la propria superiorità, la propria forza in modo ancora più fragile. Dimostrare debolezza, sensibilità, attenzione verso l’altro e ascolto non è consentito. La virilità impedisce così al genere maschile, o meglio, agli uomini che ne sono succubi, di lasciarsi riempire da lati dolci e umani della vita. Ecco quindi perché molti uomini hanno paura di unirsi alla lotta femminista: perché è una lotta che, pur portando anche il loro interesse, non porta il loro nome, perché li associa con troppa evidenza al genere femminile e perché imporrebbe loro un epocale cambiamento di definizione identitaria.

Un’emancipazione maschile e femminile

È tempo quindi che gli uomini si uniscano alla lotta femminista non solo in solidarietà delle donne, del genere che principalmente ha sofferto per via della cultura degli stereotipi di genere, ma per loro stessi. Non sono solo le donne a dover cambiare, anche gli uomini devono e possono farlo. L’affermazione di una mascolinità positiva, che può dimostrarsi forte nel riconoscimento positivo della propria fragilità deve passare dal genere maschile. Che gli uomini siano esempi di un modello positivo di mascolinità, per non incatenare le future generazioni negli stessi stereotipi di cui sono stati vittima. Che la “Giornata internazionale della donna” sia una festa anche del genere maschile. Che si regalino mimose anche agli uomini.