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Coronavirus in Italia, come siamo cambiati in un mese di contagi

Il bilancio dopo un mese di emergenza Coronavirus

Dopo un mese dal primo contagio italiano di Coronavirus, è impossibile fare un bilancio dell'emergenza. L'unica cosa che possiamo fare è chiederci come siamo cambiati.

Il virus sicuramente serpeggiava da molto prima, ma è passato un mese dal giorno in cui i telegiornali e l’informazione online annunciarono che era stato individuato il primo caso di contagio da Covid-19 in Italia. Impossibile fare un bilancio di una vicenda ancora drammaticamente aperta, e purtroppo lontana dal suo acme, perfino in Lombardia, che è stata – se vogliamo usare il linguaggio di una guerra – la regione martire di questo mese.

Tanto più che possiamo ragionevolmente prevedere che ci sarà un altro anniversario fra trenta giorni, e sperare che abbiano torto quei luminari inglesi di epidemiologia – sono i maestri nel mondo, avendo avuto un impero con radici profonde nei paesi caldi – nel sostenere che durerà un anno. L’unica cosa che possiamo fare, se non vogliamo elencare dei numeri, è chiederci come siamo cambiati, dato che la vita di ognuno di noi è cambiata. Non una pagella, che sarebbe fuori luogo ed arrogante, ma un esame delle cose a distanza, cominciando dalle autorità più alte.

Il presidente Mattarella ha fatto quello che era giusto fare, convocando governo e opposizione e invitandoli a un rapporto sereno, nell’emergenza. Resta il neo di quella visita alla scuola con bambini cinesi a piazza Vittorio: nobile l’intento, ma il messaggio che ne è venuto è che non c’era nessun pericolo, al di fuori del razzismo.

Papa Francesco è stato fotografato a piedi in una Roma deserta. L’esatto contrario di Papa Pacelli accorso a San Lorenzo bombardata, anche perché ogni assembramento sarebbe sconsigliato. E quell’immagine, più che quella di una presenza forte, comunica l’idea di una solitudine. Quella di un pastore che anche nell’ora più buia parla del dramma dei migranti e dello scandalo dell’evasione fiscale, mentre la gente muore senza un funerale, senza un’estrema unzione. È come se quelle chiese sbarrate, o semichiuse fossero il simbolo di una incapacità di ascolto. Non è vero: in fondo alla catena ecclesiale stanno i parroci e i preti delle piccole comunità più colpite. Sono loro ad aver provato a reggere l’urto.

Il governo era un governo destinato a evitare le elezioni, e cooptare il PD per arrivare all’elezione di un nuovo capo dello Stato. Non era tarato su un’emergenza come questa e la sua anima doppia, fatta di impreparazione e correttezza politica, si è rivelata inadeguata a reggere un’emergenza senza precedenti. Il presidente del Consiglio è caricaturale quando imita Churchill, il ministro della Sanità una figura di secondo piano, il ministro degli Interni un prefetto, ma non di ferro, il ministro degli Esteri è Di Maio. Hanno sottovalutato prima, sono rimasti sorpresi dopo.

Se il governo ha affrontato l’emergenza come fosse una campagna elettorale, titubante nel fare scelte impopolari, l’opposizione è stata uno specchio fedele e rovesciato di questa debolezza: ha urlato per la chiusura di tutto quando il governo lasciava aperto, per l’apertura di tutto quando il governo chiudeva.

Ci sarebbe voluto un governo di unità nazionale al primo delinearsi del contagio, ma il governo non ha il prestigio e la forza per permetterselo, e l’opposizione manca dell’aplomb per farlo: ha leader da battaglia, non statisti da consenso.

Sono andati meglio i governatori, di tutte le tendenze. Forse perché più vicini al territorio, forse perché la
Sanità è affar loro, ma hanno avvertito prima il pericolo e lo stanno affrontando con dignità.

I sindaci: quelli dei piccoli comuni sono dei sergenti disperati e caparbi. Quelli delle città più grandi pagano dazio alla politica, con le loro sortite sulle città che ripartono, dopo le prediche sulla psicosi o sul pericolo razzista.

Gli italiani. C’è di tutto, come al solito. I medici, il personale sanitario sono gli eroi. Lo sono legittimamente tutti quelli che lavorano per tenere in piedi la società: da chi distribuisce le merci a chi tiene aperti i supermercati, chi come poliziotti e carabinieri pensa a far rispettare le regole, i militari che stavolta hanno la missione in patria.

Poi ci sono quelli che dovrebbero stare a casa: quelli che obbediscono sono nel giusto. Quelli che non lo fanno, sono degli scappati di casa. Un runner, ovvio, non è un criminale. Ma se non hai paura di contagiarti, devi avere il rispetto e il coraggio di pensare che puoi essere tu a contagiare altri. In Puglia la cosa è paradossale: molti tra i contagiati sono genitori di studenti fuori sede tornati a casa, forti abbastanza da superare la polmonite, non da evitare quella altrui.

Le discussioni: siamo tutti diventati esperti. Ma alcuni vivono i loro giorni migliori: i dietrologi. Arrancano un po’ gli odiatori seriali, e anche i militanti politici: la realtà dura e prepotente riduce il resto a chiacchiere e distintivi (ma ho letto in qualche posto la proposta del reddito di quarantena).

I media: sono stati spesso l’eco delle incertezze politiche, tra allarme e allarmismo. Hanno sparso paura e ingannevole sicurezza, a turno. Ma una cosa è il lavoro dei direttori, un altro quello dei cronisti di strada. Finora il giornalismo quando si occupava di sanità aveva il file già pronto: malasanità. I talk show faticano tra esperti che si contraddicono, e politici che sono andati all’emergenza come se fosse una campagna elettorale, ma ingrassano gli ascolti. I social sono lo psicologo di un’Italia stesa sul divano. Se dovessi scegliere una testata che ha fatto servizio pubblico, direi L’Eco di Bergamo. Purtroppo metà delle pagine è fatta di annunci mortuari.